il dibattito negli stati uniti
L'effetto Kabul e il vuoto della politica estera americana
Nonostante l'attentato di giovedì, gli Stati Uniti non cambiano strategia sull'Afghanistan
Biden va avanti con le evacuazioni, arranca, si trascina. Rispetto a qualche giorno fa la sua strategia non è stata chiarita, ma è proprio di chiarezza e di un nuovo sguardo internazionale che avrebbero bisogno al più presto gli Stati Uniti
Nella conferenza stampa di giovedì sera Biden è rimasto fedele alla sua promessa di porre fine alla guerra, e di farlo il più rapidamente possibile. Chi per giorni ha difeso il ritiro delle truppe americane in Afghanistan continuando a ribadire che nessun cittadino è stato ucciso durante le evacuazioni, ha dovuto fare i conti con l’orrore di giovedì all’aeroporto di Kabul – 13 soldati statunitensi e oltre novanta afghani uccisi dalle bombe di due attentatori suicidi. Il presidente degli Stati Uniti ha giurato di vendicarsi per l’attacco all'aeroporto e di dare la caccia agli assassini del ramo afghano dello Stato islamico, ribadendo che non intende lasciare indietro nessuno, con il riserbo che come in tutte le guerre, sia difficile salvare tutti.
La sua politica estera continua però ad essere poco chiara, come quella dei suoi predecessori. La cruda realtà secondo il giornalista del Wall Street Journal Daniel Henninger è che di fatto non esista una politica estera di Biden e che vada cambiata strategia immediatamente, non a evacuazione finita: “Il tempo è scaduto. Il momento di fare i conti con il significato a lungo termine di Kabul è ora”. Secondo Henninger, Kabul ha rivelato un pericoloso vuoto nella politica estera degli Stati Uniti e a questo vuoto sono i repubblicani a dover offrire un’alternativa sulla sicurezza nazionale, ora, se vogliono contare e essere un'alternativa. “Il vuoto di politica estera a causa di una consapevole scelta politica sulle priorità”, ciò significa che quello che potrebbe essere chiamato l'effetto Kabul sta rendendo chiaro che la globalizzazione, che piaccia o meno, significa che gli americani sono ovunque, comprese migliaia di civili in Afghanistan. Il neoisolazionismo della “ricostruzione in casa” di Biden, che apparteneva anche al suo predecessore Donald Trump, citato ripetutamente questa settimana come giustificazione del brusco ritiro dall’Afghanistan, è una decisione esplicita di trasferire risorse dalla difesa a spese interne illimitate. I conservatori che credono che gli Stati Uniti possano “tornare a casa” e mantenere la sicurezza nazionale vivono in un mondo di parole d'ordine, non di politica realizzabile, e i nemici lo sanno. Senza che il mondo possa vedere un caposaldo strategico americano come guida, si aggira una pericolosa confusione tra alleati e avversari.
Tom Nichols sull'Atlantic lo chiama “A bungled mess”, in poche parole, un pasticcio. Non è la stessa cosa che dire che la politica di Biden è sbagliata, perché per il professore la scelta di lasciare l'Afghanistan è quella giusta e ciò che il popolo americano voleva. Ciò non toglie però che l’esecuzione di questa operazione sia stata afflitta da errori organizzativi e burocratici a volte ridicoli a volte terrificanti: l’esecuzione di una politica che Biden ha sostenuto per anni e che ora sembra una completa improvvisazione da parte di una burocrazia di sicurezza nazionale che ha finto di non avere idea della decisione che avrebbe preso Biden. “Questa operazione non sarebbe mai andata liscia, ma avremo bisogno di sapere, all'indomani del più grande giorno di vittime statunitensi in 10 anni, se doveva essere così brutale”, dice Nichols. E la questione fondamentale rimane ormai cosa fare ora: l’attribuzione delle colpe potrebbe dare soddisfazioni, ma non è una politica.
La politica del presidente sembra tuttavia essere la stessa con cui sono iniziate le evacuazioni pochi giorni fa, e il percorso delle prossime settimane – o anche dei prossimi giorni – non è più chiaro di quanto lo fosse prima dell’attentato all’aeroporto di Kabul.
Per Henninger il punto di partenza per una politica estera repubblicana dovrebbe essere il riconoscimento che il futuro non consista nell’evitare “guerre infinite", ma nel mostrare al mondo che gli Stati Uniti faranno tutto ciò che è necessario per creare un deterrente credibile contro le guerre e gli atti di terrorismo.
Nichols è meno ottimista: vede il popolo statunitense intrappolato nella grande tradizione americana di arrancare, “che a questo punto potrebbe essere tutto quello che possiamo fare”.