Ridere da morire sull'islam. Un tabù
La vita pazzesca di Zwan, che ha deriso i talebani fino alla morte mentre noi venivamo umiliati
L’inferno di ieri a Kabul era cominciato in luglio a Kandahar con una storia minima e massima. I talebani si dissociano dall’ultimo carnaio. Tra poco nelle scuole faranno vedere che anche i talebani sono preoccupati del riscaldamento globale, già si è pensato che sono diventati inclusivi, e la loro resilienza riempie di orrore l’occidente di un Tony Blair ma suggestiona e incanta tutti quelli che mettono la nostra credula inanità a loro disposizione, come si fa in campagna quando la vacca va alla monta del toro. Invece bisognerebbe far girare il video del triste e martire Buster Keaton di Kandahar, il tizio con il volto allungato e smunto, l’aria da clown destinato al cannibalismo della risata, il poliziotto afghano che faceva il comico e li sbeffeggiava in piazza con l’ironica tenerezza del pagliaccio.
Si chiamava in arte Khasha Zwan. Un uomo meraviglioso e magico, incarnazione del coraggio e dell’indifferenza cinica davanti agli idoli della folla, una faccia strana e metafisica, uno sguardo che va oltre la dimensione della comune umanità, il punto di vista filosofico di Diogene di Sinope. Io spero che sia un fake, ma a quanto pare non lo è. Tra una puttanata e l’altra della vita quotidiana, guardatevi il video del Daily Mail: lo sono andati a prendere a casa, nella capitale del talibanesimo, nella città dove le sue performance liberavano dalla soggezione, offrivano il piacere incommensurabile della risata a spese di quelle caricature della malvagità travestite da secchioni della teologia coranica.
Nel video lo si vede ristretto in una macchina tra due gaglioffi forniti di kalashnikov, mentre improvvisa un numero comico da tonto per angustiare e compiacere i suoi nuovi carcerieri, con la vocina nasale e il deadpan o padella morta che è il volto immobile, consapevole e malinconico di chi fa satira. Il suo atteggiamento e la sua cantilena in faccia ai mostri, interrotta da un paio di schiaffi, e in reazione alla violenza dalla sua perfetta indifferenza al male, fanno capire che sa come andrà a finire, un colpo alla nuca e la gola tagliata, ma in fondo non gliene importa.
Non è importato neanche a noi, quando tanti anni fa qui ci domandammo come mai in un mondo di ridanciani nessuno si impegnasse a ridere dell’islam politico, a mettere in burla il tragico dell’intolleranza e del terrore a sfondo religioso e shariota, e questo in un porco mondo di liberi islamo-gauchisti che idoleggiano la satira politica e di costume a patto che non costi niente. Poi venne Charlie Hebdo, nel gennaio di sei anni fa, ma alla strage ancora una volta opponemmo una protesta unanimistica e sentimentale, troppo bella e narcisista per essere vera opposizione, che non si tradusse in una ripulsa comica, alla maniera del martire Khasha Zwan, quello che forse in quegli stessi giorni intratteneva le piazze sulle bellurie e le bullaggini dell’islamismo armato e torturatore, offriva il suo buffo copricapo, il suo naso gogoliano, i suoi occhi scuri assorbiti dallo stupore per tanta ferocia, alla futura vendetta dei vincitori dell’imperialismo occidentale.
Anche oggi è così: cantiamo le donne, i bambini, l’umanitarismo della fuga e dell’accoglienza, dannazioni e eroismi d’aeroporto in forma di luogo comune, ma nessuno che si preoccupi davvero di un episodio minore, relegato alla cronaca piccola, del delitto di Kandahar, l’uccisione di un comico abbacchiato e però fino alla fine eretto di fronte al suo destino, e la strage postuma delle risate che ha suscitato. Questo dice che siamo stati battuti definitivamente, che non sapremo mai nemmeno vendicare il male che è stato fatto al mondo, e che tranne Khasha Zwan, che li ha derisi fino all’ultimo respiro, siamo stati tutti umiliati.
Cose dai nostri schermi