L'ultimo giorno del turismo in Afghanistan

La storia della fuga della guida hazara

Gianluca Pardelli

Una famiglia afghana evacuata verso l'Italia. Alle sue spalle 10 anni di lavoro e fatiche nel settore turistico

Berlino. All’aeroporto di Kabul, tra le rovine di un paese allo sfacelo, Gul Hussain Baizada non sapeva ancora che di lì a poco si sarebbe ritrovato su un aereo militare diretto in Italia. Mentre vedeva allontanarsi il caos urbano, Gul cominciava già a pensare a tutto ciò che aveva appena perso, il risultato di dieci anni di lavoro fra i monti, le città, i villaggi e i mercati della sua terra. Protetto dal ventre rovente della carlinga, con le figlie e la moglie, aveva capito che la stagione del turismo in Afghanistan era finita.

Gul Hussain Baizanda è un quarantenne  nato e cresciuto a Bamiyan, la  cittadina di montagna dell’Afghanistan centrale che nel 2001 era passata suo malgrado agli onori delle cronache quando i talebani  decisero di demolire due ciclopiche statue millenarie del Buddha. Gul, così come la maggior parte degli abitanti di Bamiyan, è un musulmano sciita di etnia hazaāra, un popolo di origine mongola perseguitato nel corso dell’epopea afghana. Le stragi di hazaāra commesse dai talebani a cavallo tra gli anni novanta e i duemila sono cicatrici aperte nel cuore di Bamiyan. Non era, però, la sua appartenenza etnico-religiosa il motivo per cui Gul si trovava, ancora pochi giorni fa, nel frastuono dell’Hamid Karzai International Airport. Era il suo lavoro, raro e insolito, ad averlo portato davanti alle fortificazioni  che separavano gli ultimi strascichi di America e Nato dal resto della capitale. Gul è una guida turistica, una figura professionale la cui esistenza in uno stato come l’Afghanistan può sembrare paradossale. Eppure Gul, il cui ultimo tour è terminato soltanto tre giorni prima della caduta di Kabul, era uno delle decine di ciceroni afghani che guidavano i turisti stranieri attraverso le meraviglie  paese.

 

In occidente la concezione di un Afghanistan come meta di viaggio è ancora associata al cliché degli psichedelici anni sessanta e settanta, quando Kabul, Herat, Kandahar e Jalalabad erano tappe obbligate dell’hippie trail, il  tragitto dall’Europa all’India che i figli dei fiori percorrevano via terra con tutta la calma di chi ancora crede al presente come motore della propria storia personale. Con la Rivoluzione di Saur nel 1978 e l’intervento militare sovietico (1979-1989) l’era delle avventure fai-da-te in Afghanistan fu interrotta e il settore turistico nel paese si ridusse a rari viaggi organizzati sotto l’egida di scambi culturali e politici con i paesi fratelli del blocco orientale. La sconfitta dei sovietici, lo scoppio della guerra civile e la presa di potere dei talebani nel 1996 annichilirono poi quasi del tutto quel poco che era rimasto del turismo in Afghanistan. Il “quasi” è d’obbligo, poiché, a onore del vero, qualche viaggiatore temerario continuò a spingersi in territorio afghano anche durante gli anni Novanta. Nella primavera del 2002, però, l’Afghanistan, liberato dai talebani, conobbe un nuovo rinascimento che attraversò tutte le sfere culturali ed economiche del paese, turismo incluso. Da allora sempre più operatori turistici specializzati, come i britannici di Untamed Borders e gli italiani di Soviet Tours, hanno cominciato a includere l’Afghanistan nel loro  portafoglio di destinazioni spesso ignorate e incomprese dai più. Le agenzie di viaggio occidentali potevano contare poi su un’estesa rete di guide, autisti e piccoli albergatori sparsi sul territorio. Negli ultimi anni diversi accompagnatori afghani erano anche riusciti a creare piccole imprese turistiche locali come la Silk Road Afghanistan Travel, l’azienda che Gul aveva fondato a Bamiyan nel 2011. 

 

Il turismo in Afghanistan non era certo un comparto economico primario per un paese in cui introiti provenivano soprattutto da aiuti internazionali ed esportazione di materia prime. I dati ufficiali del settore dell’ospitalità afghana parlano di un indotto di diversi milioni di dollari per un’industria che impegnava diverse migliaia di persone e un centinaio di infrastrutture alberghiere. Ospitalità e turismo vero e proprio sono, tuttavia, due realtà distinte. La stragrande maggioranza degli ospiti degli hotel afghani sono – o meglio erano – uomini e donne d’affari, diplomatici stranieri, medici stranieri e cooperanti vari, oltre a un numero imprecisato di contractors americani, contrabbandieri pakistani, investitori cinesi che non si trovavano nel paese per ammirare i paesaggi mozzafiato e le architetture da mille e una notte promosse con tanto entusiasmo dall’Afghan Tourism Organization, il dipartimento per il turismo del ministero per la Cultura e l’Informazione afghano. Eppure, quelle poche decine di stranieri che ogni mese visitavano l’Afghanistan esclusivamente per piacere e interesse erano una fonte di reddito più che sufficiente per chi come Gul aveva deciso di intraprendere, contro lo scetticismo di molti, una carriera nel turismo. I numeri di cui parla al telefono al Foglio con la voce rotta dalla nostalgia mentre si trova in una struttura di prima accoglienza nei pressi di Fiumicino sono chiari: oltre trecento clienti l’anno per un guadagno netto di circa duemila dollari al mese, ben oltre la media nazionale che oscilla tra i settemila e i diecimila dollari l’anno. L’ultima cliente di Gul, una turista italiana residente a Las Vegas, ha lasciato l’Afghanistan il 12 agosto, neanche tre giorni prima del trionfo talebano. Con tutta probabilità si è trattato dell’ultimo viaggio turistico nel paese. Le altre agenzie avevano, infatti, interrotto le proprie operazioni già da inizio luglio. Nonostante sia stata una corsa contro il tempo con diversi momenti di tensione, Gul Hussain Baizada ne parla come di qualcosa di splendido e unico, l’estremo limite di un percorso professionale irripetibile, un cammino spezzato dal frantumarsi del sogno di un Afghanistan in pace.

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