Il Librone bianco di Xi Jinping
Sui banchi di scuola arriva il Pensiero del leader, che diventa materia obbligatoria e un culto come quello di Mao
La Cina vuole controllare sempre di più l’educazione dei ragazzini: niente videogiochi, niente lezioni dopo scuola. È la maoizzazione di Xi
“Governare la Cina”, in Italia pubblicato da Giunti, è un librone in tre volumi con la copertina tutta bianca e in alto, al centro, l’immaginetta un po’ eterea, modello santino, del presidente cinese Xi Jinping. Le edizioni sono uguali in tutte le lingue in cui è stato tradotto, più di quaranta: dall’inglese all’arabo, dallo spagnolo al giapponese, dal vietnamita all’italiano. E’ un’opera mastodontica composta da 178 articoli e 35 capitoli, centoventi euro per quasi quattro chili di saggezza con caratteristiche cinesi. All’interno si trova una selezione dei discorsi di Xi a partire dal novembre 2012 – quello al diciottesimo congresso del Partito comunista cinese, che ha consacrato la sua leadership – divisi per tematiche, e poi, alla fine del primo volume, un’appendice con le fotografie del presidente e una sua biografia, o meglio: un’agiografia. Dai ruoli più locali come nella città di Xiamen alla contea di Zhengding, fino alla leadership della provincia del Fujian, Xi Jinping viene ritratto come l’uomo che ha reso oro tutto ciò che ha toccato, sin dai suoi primi passi in politica: “Nel corso della sua carriera politica sono diventati evidenti la sua lungimiranza e la sua determinazione, così come la sua disponibilità a sacrificare il guadagno personale e la fama transitoria per una causa più grande”, si legge.
Nel libro Xi spiega la sua versione del “Sogno cinese” e del “socialismo con caratteristiche cinesi”, la lente attraverso la quale anche noi occidentali abbiamo la possibilità di interpretare la seconda economia del mondo. Ci sono discorsi dedicati alle riforme economiche e altri sulla necessità di tornare alla cultura tradizionale per “coltivare e diffondere i valori fondamentali del socialismo”; la “visione olistica” della sicurezza nazionale e l’importanza della battaglia alla povertà, “mettendo sempre le persone al primo posto”, la sua visione dell’ormai ex regione autonoma di Hong Kong e delle relazioni con Taiwan, l’importanza della propaganda e del “soft power culturale” fino a definire lo “sviluppo pacifico” della Cina (“La Cina difende con fermezza la sua sovranità, la sua sicurezza e i suoi interessi di sviluppo. Nessun paese dovrebbe aspettarsi che la Cina ingoi l’amaro frutto che mina la sovranità, la sicurezza o gli interessi di sviluppo”). C’è dentro anche la visione della politica estera della Cina, che da quando Xi è arrivato al potere ha abbandonato, almeno in parte, la tradizionale politica della “non interferenza”. O meglio: ufficialmente continua a dire di perseguirla, ma i progetti di “cooperazione tra i popoli” (per esempio la Via della Seta) servono anche ad aumentare l’influenza cinese sul resto del mondo. E’ il caso, per esempio, del coinvolgimento della Cina nella crisi dell’Afghanistan e i contatti di Pechino con i talebani: i diritti umani nel paese non sono un problema della Cina (Xi dice: “Che la scarpa calzi bene o meno, solo chi la indossa lo sa”), la forma di governo del paese non è un problema della Cina. Ciò che conta sono le richieste di Pechino – nel caso dei talebani, il controllo dell’estremismo islamico ed etnico nella regione dello Xinjiang.
Tutte queste complesse e articolate politiche sono una parte del più ampio “Pensiero di Xi Jinping”, che poi sarebbe “Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi”, ovvero la filosofia politica alla base delle decisioni e della forma di leadership di Xi. La scorsa settimana è stato annunciato che il Pensiero di Xi è stato ufficialmente introdotto nel curriculum scolastico nazionale, a partire dal nuovo anno scolastico iniziato ieri. Ci saranno classi sul Pensiero per gli studenti a partire dai 3 anni fino ai 10. “L’educazione ideologica non è una novità in Cina, ovviamente. Gli sforzi per indottrinare i bambini sull’ideologia e sul patriottismo sono raddoppiati all’indomani del massacro di Tiananmen”, ha scritto Yun Jiang del China Policy center di Canberra, “è una lezione curriculare, proprio come matematica o scienze alle scuole elementari, ed è obbligatoria anche nelle scuole superiori. E’ mirata a diversi livelli di maturità: nelle scuole primarie si insegna l’amore per la patria e per il Partito. I bambini vanno in gita e gli vengono raccontate storie di eroi rivoluzionari che hanno creato la Nuova Cina. Man mano che i bambini crescono, l’educazione ideologica diventa più teorica”. Ai ragazzi delle superiori si insegna l’ideologia del Partito, il pensiero di Mao, quello di Deng Xiaoping, tuttavia, scrive Yun Jiang, “il Pensiero di Xi è diventato una materia speciale su cui concentrarsi, è stato elevato al di sopra di altre parti dell’ideologia comunista cinese”. L’introduzione delle lezioni sul Pensiero di Xi arriva in un momento molto particolare in cui il governo sta cercando di allentare la pressione sugli studenti, soprattutto imponendo nuove stringenti regole alle aziende che fanno il cosiddetto tutoraggio – una pratica molto comune nella competitiva Asia orientale, dove gli studenti, dopo la scuola, perfezionano il curriculum nelle scuole private.
Allo stesso tempo, mentre il ministero dell’Istruzione di Pechino ha vietato nelle scuole libri di testo stranieri, l’agenzia che si occupa dei media ha reso noto in settimana una nuova stretta sui videogame per i ragazzi. Se si è sotto i diciotto anni, è possibile giocare, al computer o allo smartphone, soltanto tre ore durante il fine settimana, mai durante i giorni feriali. La regola è implementata grazie al riconoscimento facciale imposto dalle società che forniscono i servizi di gaming. E come mai tutta questa attenzione alle giovani menti che cercano di evadere online? Un sospetto c’è. James Palmer, vicedirettore di Foreign Policy, ha scritto su Twitter: “Le argomentazioni sul fatto che le misure sempre più restrittive su bambini e genitori siano principalmente motivate dalla preoccupazione per la salute dei bambini sono assurde nel contesto ideologico del Partito-stato del 2021”.
A poco più di otto anni dalla sua ascesa al potere, Xi Jinping ha trasformato la Cina in una Russia che ce l’ha fatta: è influente, è capace di controllare la dissidenza ma anche il discorso pubblico, promette investimenti (anche se non sempre traduce in fatti), usa l’economia come merce di scambio per ragioni politiche, a volte come strumento coercitivo. Sa usare la tecnologia e gli strumenti di propaganda contemporanea. E’ la potenza impossibile da ignorare. A fare la differenza, però, rispetto al modello di potenza alternativa all’America è soprattutto la costruzione del culto della personalità del leader che va avanti da anni. Giornalisti, analisti, ma anche larga parte dell’opinione pubblica cinese e degli osservatori interni riconoscono che la Cina di Xi è cambiata enormemente rispetto al decennio precedente di Hu Jintao, e questo cambiamento, descritto da più parti come un’involuzione reazionaria, che spinge su patriottismo e propaganda, nazionalismo e uniformità, è visibile soprattutto quando si parla di lui, e di tutto ciò che lo circonda.
Non si tratta, come preferiscono politici come Vladimir Putin, di mostrare la forza fisica e l’arroganza del leader in modo da ottenere legittimità, tantomeno di costruire leggende personali poco credibili ma che avvicinano il leader a una divinità, come nel caso della dinastia dei Kim in Corea del nord. Per Xi Jinping è tutto diverso, e tutto ciò che sa lo ha imparato da Mao Zedong e dagli errori altrui. “C’erano molte strategie che un dittatore poteva scegliere per farsi strada verso il potere e sbarazzarsi dei suoi rivali. Abbiamo assistito a purghe sanguinose, a manipolazioni, al ‘dividi e governa’, solo per citarne alcune. Ma sul lungo periodo il culto della personalità è sempre stato il più efficiente”, ha scritto Frank Dikötter, storico della Cina dell’Università di Hong Kong, nell’introduzione al suo ultimo libro “How to Be a Dictator” (Bloomsbury, 2019). “Il culto umilia sia gli alleati sia i rivali, costringendoli a collaborare in una condizione di subordinazione. Ma soprattutto, costringendoli ad acclamarlo prima degli altri, un dittatore trasforma chiunque in un bugiardo. E quando tutti mentono, nessuno mente, rendendo molto più difficile trovare complici e organizzare colpi di stato”. Nel libro Dikötter si occupa di otto dittatori del Novecento, ma quello che conosce meglio è Mao Zedong, essendo uno dei maggiori studiosi della Cina durante la Grande carestia. Mao viene ritratto come un genio della costruzione del culto di personalità, che sa come e quando usare la propria immagine per mobilitare le masse e quando sparire per contribuire all’enigma: il leader deve essere imprevedibile. Il Grande timoniere fece costruire delle fabbriche (sette soltanto a Shanghai, scrive Dikötter) per produrre il materiale della propaganda con la sua faccia, dalle spillette appuntate sul bavero della giacca di ogni cittadino ai poster fino al Libretto rosso, pubblicato nel 1964 nel noto formato tascabile per averlo con sé in ogni circostanza, soprattutto sul fronte di guerra. Perché più di ogni altra cosa Mao conosceva il potere delle parole e l’uso che se ne può fare, a volte perfino più efficace nella sottomissione rispetto alle armi da fuoco. Ha costruito slogan e aforismi immortali come “la Rivoluzione non è un pranzo di gala”, e si vendeva “come un uomo rinascimentale, un filosofo, un saggio, un poeta immerso nelle tradizioni letterarie del suo paese”, scrive Dikötter.
“Sinora soltanto Mao aveva potuto combinare la propria azione di governo con il ruolo di interprete autentico dell’ideologia del Partito comunista cinese, in quanto estensore di quel ‘Pensiero di Mao’ che aveva di fatto sinizzato il marxismo-leninismo negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso”, scrive il direttore del ToChina center dell’Università di Torino, Giovanni Andornino, nel libro “Cina” (il Mulino). “L’iscrizione del Pensiero di Xi nel pantheon ideologico nazionale non è un rituale formalistico: attribuisce a Xi e al suo apparato concettuale – tanto ecumenico quanto strumentalmente duttile – il formidabile rango di sintesi della saggezza collettiva del Partito. Chiunque esprima riserve rispetto all’indirizzo politico del leader si colloca così formalmente al di fuori dell’ortodossia ideologica dell’intero partito”. Chi è contro Xi è contro il Partito e quindi contro l’intero paese: praticamente una minaccia alla sicurezza nazionale.
Il libro “Governare la Cina” di Xi Jinping non ha lo stesso formato del Libretto rosso – lo storico della Cina Jeffrey N. Wasserstrom lo chiama “il Librone bianco” – ma ha un fine molto simile. E’ distribuito dalla Foreign Languages Press, controllata dalla China International Publishing group di proprietà del Partito comunista cinese. Non esiste una versione in ebook, un audiolibro ufficiale, perché “Governare la Cina” è soprattutto un oggetto, un segno di riconoscimento tangibile, uno status. Da quando è stata pubblicata la prima edizione del primo volume, nel 2014, il libro sul “pensiero di Xi” è in bella vista negli studi di rappresentanza delle sedi diplomatiche cinesi, sugli scaffali delle multinazionali cinesi di mezzo mondo, naturalmente sulle scrivanie di giornalisti e studiosi che tentano di interpretare la visione di Xi Jinping tra le righe della sua opera definitiva, andando a cercare direttamente dalla fonte. Mark Zuckerberg ne aveva una copia sulla sua scrivania a Facebook quando Lu Wei, ex capo della propaganda di Pechino, gli fece visita qualche anno fa.
Certo: pubblicarlo non è un’operazione commerciale. Secondo i dati Gfk, il primo volume di “Governare la Cina”, uscito nel 2016, in Italia ha venduto 421 copie, il secondo, del 2019, 163 copie. E Giunti non ha ancora nemmeno iniziato i lavori di traduzione del terzo volume. Ma dal punto di vista cinese non è importante che il pensiero di Xi si legga all’estero, l’importante è che esista, che se ne parli, che sia celebrato: nel 2017 l’allora presidente del Senato Pietro Grasso nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani ospitò la presentazione del libro del presidente della Repubblica popolare su richiesta dell’ambasciata cinese a Roma, e disse che “alcune sezioni di questa ricca antologia di interventi, nella mia personale prospettiva, appaiono di particolare interesse. Ad esempio, quelle relative alla costruzione di uno stato di diritto e alla lotta alla corruzione”. Nel 2018 a Xi Jinping fu assegnato perfino il Premio letterario dedicato a Cesare Pavese, sponsorizzato dal Comune Santo Stefano Belbo e dalla Regione Piemonte. “Lavoro costruito con grande cura, anche nella veste editoriale, arricchito di immagini eloquenti che illustrano e completano l’opera di impegno politico e civile intrapreso dal segretario generale del Partito comunista cinese e presidente della Repubblica popolare cinese dal 14 marzo 2013”, aveva detto nelle motivazioni il presidente del premio, Luigi Genesio Icardi. L’anno successivo Icardi lasciò la carica perché fu eletto al consiglio regionale del Piemonte tra i falchi anticinesi di Matteo Salvini, e fu annunciato “un rilancio” del premio per ragioni non meglio specificate – o forse intuibili.
Ma quegli episodi furono nulla in confronto alla cerimonia celebrativa dell’opera letteraria di Xi Jinping che si è svolta nel marzo del 2019, alla vigilia della visita di stato del presidente in Italia (la visita in cui si firmò il memorandum sulla Via della Seta con Pechino). La celebrazione di “Governare la Cina” si svolse in quell’occasione a Palazzo Colonna a Roma, ed erano presenti il viceministro del dipartimento della Comunicazione del Comitato centrale del Partito comunista cinese, Jiang Jianguo, l’allora ambasciatore cinese in Italia Li Ruiyu insieme con Vito Petrocelli, che era il presidente della commissione Esteri del Senato e anche oggi è un grande sostenitore delle posizioni cinesi, e con Marina Sereni, oggi viceministro agli Esteri. Il censore Jiang Jianguo in quell’occasione lesse al microfono la lettera che il presidente Xi Jinping aveva scritto agli studenti del Convitto nazionale Vittorio Emanuele II di Roma, uno dei pochissimi licei al mondo che continua ad avere alcune lezioni direttamente fornite dall’Istituto Confucio – un programma di promozione della lingua cinese finanziato dal governo di Pechino. Gli studenti romani gli avevano mandato una lettera di ringraziamento, e Xi Jinping, inatteso, aveva avuto la magnanimità di rispondere. Il culto del leader si costruisce anche così.