Perché New York non era pronta all'arrivo dell'uragano Ida

Micol Flammini

La forza dei fenomeni atmosferici è difficile da controllare, ma non adattare le proprie infrastrutture li rende ancora più pericolosi. La soluzione, oltre all’impegno che serve a limitare le emissioni, è anche quella di adattare costantemente le nostre città, correggerle, renderle elastiche per il futuro 

“L’uragano Ida, gli incendi in Europa, le inondazioni improvvise a New York – ha detto il presidente americano Joe Biden – sono un altro promemoria del fatto che la crisi climatica è qui. Dobbiamo fare, essere preparati meglio, dobbiamo agire”. Biden ha commentato così la catastrofe che l’uragano Ida si è lasciata alle spalle  con 45 morti, tredici nella città di New York. Il cambiamento climatico ha reso questi eventi più frequenti – nel nord est degli Stati Uniti sono raddoppiati rispetto alla metà del  secolo scorso –  e il presidente ha ragione a dire che non siamo preparati, eppure, dicono gli esperti, le avvisaglie c’erano.  New York, città densamente abitata,  continua a non essere pronta  all’arrivo di fenomeni come gli uragani. Se da un lato  eventi come inondazioni, tempeste, alluvioni, incendi sono già molto pericolosi e difficili da controllare, non adattare le infrastrutture delle città a questi eventi – per contrastarli, prevenirli o mitigarne gli effetti – li rende ancora più dannosi.  I governi però continuano a rimanere restii a fare degli investimenti seri in questo senso. 

 

Prendiamo il caso di New York, la città più grande d’America, che non è nuova a questi eventi e che dopo il 2012 aveva investito miliardi di dollari dopo l’uragano Sandy. Ma non sono stati sufficienti. Un’esperta di infrastrutture e questioni climatiche ha detto al New York Times che uno dei problemi maggiori è che durante l’uragano Sandy la minaccia maggiore veniva dalle mareggiate, con Ida invece il pericolo veniva dall’acqua piovana che scorreva a valle e che ha travolto tombini, fatto traboccare gli argini dei fiumi e allagato gli scantinati, causando in questo modo la maggior parte delle morti. Se New York in questi anni aveva cercato di adattarsi alle mareggiate, non ha pensato a mettersi al sicuro per altri problemi atmosferici: Ida ha scaricato più acqua, che è stata più veloce e più potente. Anche Sandy aveva inondato la metro e il sistema metropolitano di New York ha speso 2,6 miliardi di dollari per fortificare le prese d’aria e per le pompe che possono riversare fuori da tunnel e stazioni più di 52 milioni di litri d’acqua al giorno, ma con Ida non è stato sufficiente. Le case, le strade, le infrastrutture di New York sono molto antiche e soprattutto è una città coperta per tre quarti da asfalto che è impermeabile e l’acqua finisce per essere riversata in strade e fogne: il terreno non assorbe. Ma il discorso non vale soltanto per New York, è applicabile a tutti gli Stati Uniti e anche all’Europa. Alcune cose possono essere evitate fortificando i sistemi di acqua piovana e anche le linee elettriche: Ida ha creato danni enormi in Louisiana e Mississippi dove circa un milione di persone è rimasto senza elettricità e anche senza acqua potabile. La soluzione, oltre all’impegno che serve a limitare le emissioni, è anche quella di adattare costantemente le nostre città, correggerle, renderle elastiche per il futuro e limitare i danni. 

 

C’è un esempio che spesso viene portato per spiegare che questo approccio è possibile. I Paesi Bassi hanno creato un programma che si chiama Room for the River che consiste nel riprogettare e ricostruire i bacini idrografici che potrebbero esondare in caso di alluvione e che si trovano attorno a zone abitate. L’obiettivo è intervenire per moderare la potenza dell’acqua  aumentando la portata dei fiumi per prevenire i danni di future alluvioni. Questo non vuol dire disimpegnarsi per la riduzione delle emissioni,  ma  prendere i cambiamenti climatici già avvenuti per un dato di fatto in continuo mutamento. I Paesi Bassi hanno agito e sembrano aver trovato un compromesso elastico per prevenire i danni. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)