il foglio del weekend
Il voto delle due Germanie
Riaffiora prepotentemente la vecchia e mai assorbita frattura tra est e ovest. Protagonista Scholz, candidato dell’Spd
"Die deutsche Frage”: per decenni dopo il 1945 la questione tedesca, il problema della Germania divisa in due – a est la Ddr sotto l’influenza dell’Urss con capitale Berlino est, e a ovest sotto l’ala degli alleati la Repubblica federale con capitale Bonn – ha dominato l’agenda politica della Germania occidentale e dell’Occidente intero, nonché del confronto est-ovest durante la Guerra fredda. Dopo la caduta del Muro di Berlino e l’unificazione tedesca nel 1990, la questione sembrava risolta: Germania unificata, ferita nel cuore dell’Europa ricucita. Sembrava. Restava semmai solo lo storico ingombro di un colosso al centro del continente, calibrato dallo sforzo di rassicurare i partner europei delle sue buone intenzioni dopo la catastrofe del nazismo e della Seconda guerra mondiale.
Invece, a oltre 30 anni dall’unificazione, la deutsche Frage non sembra affatto risolta, ha subito una metamorfosi e si ripresenta sotto mentite spoglie. E i suoi effetti si sentiranno anche fra pochi giorni alle urne quando, il 26 settembre, i tedeschi decideranno quale governo darsi dopo 16 anni di Angela Merkel. Oggi la questione tedesca è tutta interna, fra la Germania dell’ovest e dell’est con i cinque “nuovi” Länder della ex Ddr che sembrano ancora separati, avulsi dagli undici dell’ovest. Non è una divisione geografica, ma politica in senso lato, e soprattutto sociale: i tedeschi dell’est covano risentimenti anche se ormai c’è una nuova generazione che di Ddr, Stasi e Honecker non ha più sentore e non ne vuole neanche sentire parlare. Uno diffuso scontento (i salari sono ancora più bassi e la disoccupazione più alta che a ovest), un senso di inferiorità, di cittadini di seconda classe che non vedono riconosciuti i proprio meriti e le proprie biografie e che in definitiva percepiscono l’Unificazione come un Anschluss, una annessione. Condizione che si riflette in una certa diversità dell’est, come la forte affermazione del partito di estrema destra AfD (Alternative für Deutschland, alternativa per la Germania), esploso con la crisi dei migranti del 2015, e del vario universo di movimenti estremisti e xenofobi come Pegida, i neonazi, o i Querdenker alias no vax.
“A est si conferma il trend generale: uno spostamento dei voti Cdu sulla Spd”, dice Oswald Metzger, brillante commentatore politico, ex deputato esperto di finanza dei Verdi col governo rosso-verde, poi passato alla Cdu e ora opinionista indipendente. “Il partito della cancelliera perde voti sia a destra verso l’AfD sia a sinistra verso la Spd. In un certo senso si può dire che la Spd si sta riprendendo i voti che con la politica di apertura a sinistra della Merkel erano trasmigrati alla Cdu”.
Conquistare il voto dell’est fra tre settimane potrebbe essere decisivo in una elezione quanto mai incerta e piena di contraddizioni e colpi di scena come questa. Vedi l’altalena senza precedenti nelle intenzioni di voto e i consensi dei candidati cancellieri, tutti ritenuti evidentemente poco convincenti o inadeguati a succedere alla Merkel, che nell’arco di un mese hanno subito oscillazioni di dieci punti passando dalle stelle alle stalle, e viceversa.
Armin Laschet (60), leader Cdu, governatore del Nord-Reno-Vestfalia, designato dall’Unione Cdu-Csu a succedere alla Merkel. Era il più simile a lei fra i tre candidati alla leadership Cdu (gli altri erano Friedrich Merz, sconfitto per un soffio, e Norbert Rötgen) ma il congresso preferì lui: l’apparato del partito, delegati, deputati, funzionari, tutti cresciuti all’ombra della Merkel, votarono per quello che prometteva continuità e meno rischi per poltrone, rendite di posizione, seggi. Col senno di poi forse un calcolo sbagliato. Arrivata a oltre il 30 per cento, la Cdu è sprofondata oggi al 20-22 per cento e nei consensi personali Laschet è ultimo: i tedeschi non gli danno credito come futuro cancelliere. Annalena Baerbock (40), copresidente con Robert Habeck dei Verdi, la cui nomina a sfidante cancelliera era stata accompagnata all’inizio da grandi fanfare di media e commentatori, è precipitata nel giro di poche settimane dai vertici in cantina: i Grünen erano arrivati a sorpassare la Cdu-Csu e la prospettiva della prima cancelliera verde sembrava sicura. Poi il volo in picchiata: pasticci e scandali vari (curriculum gonfiato, pieno zeppo di errori e imprecisioni, un libro in odore di plagio, e una serie di gaffes che ne denunciavano l’inesperienza e inadeguatezza) l’hanno fatta piombare in fondo nei sondaggi, lei e anche il partito. Olaf Scholz (63), socialdemocratico, vicecancelliere e ministro delle Finanze nell’attuale grande coalizione. Incarna l’ala moderata della Spd e per questo nel 2019 era stato trombato all’elezione per la leadership dal congresso, che gli preferì il duo di sinistra di Walter-Borjans e Saskia Esken. Politico di lungo corso (era già una promessa della Spd al tempo di Gerhard Schröder), dalla sua ha una grande esperienza politica, sia da ministro che borgomastro di Amburgo, competenza finanziaria e il fatto che somigli molto nello stile alla Merkel e riverberi la promessa di equilibrio e stabilità che la cancelliera ha garantito per 16 anni. Somiglianza che Scholz non si perita di nascondere, anzi sottolinea. Fa di tutto per presentarsi come la prosecuzione della cancelliera Cdu: “Ich kann Kanzlerin”, so fare anch’io la cancelliera (al femminile), recita un manifesto della sua campagna, mentre lui stesso ha copiato il gesto tipico della Merkel della Rute (letteralmente bacchetta), di tenere cioè le mani giunte davanti a formare una specie di rombo. Pressata verosimilmente dal partito, la cancelliera – criticata per essersi finora tenuta fuori dalla campagna elettorale e non essersi mai spesa per Laschet anche se era il suo candidato preferito – ha reagito con un paio di bacchettate a Scholz sottolineando le differenze che la distinguono da lui.
Se solo un mese fa la Cdu-Csu guidava i sondaggi, il quadro oggi è ribaltato: è finita al secondo posto con il 21 per cento dietro alla Spd schizzata al 23 per cento. I Verdi sono al 18 per cento e i liberali (Fdp), probabile ago della bilancia dopo il voto, al 12 per cento. L’AfD è data all’11 per cento e la Linke (estrema sinistra) al 6 per cento. Altri indicano la Cdu-Csu al 20 per cento, la Spd al 25 per cento e i Verdi al 16,5 per cento. Un paio di mesi fa la Cdu-Csu era sopra il 30 per cento, la Spd languiva al 15 per cento e i Verdi erano al 20 per cento. Nel 2017 i risultati indicavano Cdu-Csu a 32,9 per cento, Spd 20,5 per cento, Verdi 8,9 per cento, Fdp 10,7 per cento, AfD 12,6 per cento e Linke 9,2 per cento. Al momento le coalizioni teoricamente possibili sarebbero quella Semaforo dai colori dei partiti (Spd, Verdi, Fdp), Giamaica (Cdu-Csu, Verdi, Fdp), Coalizione Germania (Cdu-Csu, Spd, Fdp), Kenia (Cdu-Csu, Spd, Verdi). Mancherebbero invece i numeri per la riedizione di una Grande Coalizione fra Unione e Spd, mentre ci sarebbero per una coalizione Rosso-Rosso-Verde fra Spd, Verdi e Linke. Ed è proprio qui che la Merkel ha rintuzzato Scholz, che finora, per non alienarsi la sinistra del suo partito, non ha mai escluso questa opzione di alleanza con il partito erede di quello comunista della Ddr, e che invece Unione e liberali vedono come il fumo agli occhi.
“C’è una bella differenza fra me e lui sul futuro della Germania”, ha detto Merkel, “con me cancelliera non ci sarebbe mai una coalizione con la Linke e se pure Scholz la veda così non è dato sapere perché non si è mai pronunciato”.
Cosa è successo con Laschet? Di sicuro una serie di errori: la grassa risata nei luoghi dell’inondazione mentre il presidente Frank-Walter Steinmeier esprimeva cordoglio per le vittime, la gestione stessa dell’inondazione e dei soccorsi nel Nord-Reno-Vestfalia, il Land dove governa, un libro scritto anni fa in parte scopiazzato e, soprattutto, una campagna elettorale scialba e un programma senza contenuti e contorni. La Baerbock a sua volta si è sgonfiata un po’ per errori propri e un po’ perché il suo hype si è sgonfiato da solo. Scholz è rimasto al suo posto, privo di carisma ma sicuro di sé, convinto di essere sempre il più intelligente e certo della sua vittoria anche quando ci credeva solo lui e veniva preso in giro. Con la sua oratoria monotona, la voce meccanica (non a caso lo chiamano Scholzomat, macina parole), il suo humor affilato e il temperamento gelido nordico, Scholz il redivivo ha conquistato il podio, novello Lazzaro che ha resuscitato una Spd malata terminale.
Da ultimo che era, è diventato primo e lo scenario di uno Scholz cancelliere, risibile fino a poco fa, è ora più realistico che mai. Anche nel primo confronto a tre, è piaciuto più degli altri: per il 36 per cento il duello tv lo ha vinto lui, contro il 30 per cento della Baerbock e il 25 per cento di Laschet.
Secondo Metzger, al di là dei candidati, si sta assistendo “all’implosione della Cdu come ultimo grande partito popolare”. E’ il “lascito della Merkel, il vuoto programmatico lasciato nei suoi 16 anni di governo”. Identificato con la Merkel, Scholz incarna la stabilità e questo rassicura: “Scholz trascina su la Spd e Laschet trascina giù la Cdu, e i Verdi perdono elettori a vantaggio della Spd. Fino al voto le cose possono ancora cambiare, ma solo se la Spd fa errori”.
Su 83,2 milioni di abitanti, e 60,4 di aventi diritto al voto, i tedeschi dell’Est sono solo 12,5 milioni e circa 10 gli elettori. Una minoranza ma potrebbero fare la differenza. Il fattore Est non è la sola variabile di queste elezioni caratterizzate da paradossi e sorprese. A cominciare dal quadro generale. Per chi è abituato a pensare a una Germania efficiente e organizzata, niente di tutto ciò all’orizzonte di queste elezioni storiche del dopo Merkel. C’era una volta la Germania, verrebbe da dire. Ad esempio Afghanistan: nei giorni del ritiro del contingente tedesco, è stato un continuo rimpallo di responsabilità per i ritardi e il caos fra governo, ministri e servizi segreti: se questi abbiano allertato in tempo e il governo abbia dormito o traccheggiato? O, viceversa, se il Bnd, malgrado i massicci finanziamenti con cui viene foraggiato, abbia preso un granchio nella valutazione della situazione? Nella girandola di accuse e sospetti si sono levate le richieste di dimissioni dei ministri di esteri, difesa, interni e dell’intero governo: richieste cadute nel vuoto con le elezioni alle porte. Alla fine la Bundeswehr ha portato via 4.587 persone di cui 3.849 afghani: meno dell’Italia che nell’operazione Aquila Omnia ha messo in salvo 5.011 persone di cui 4.890 afghani.
A luglio, il disastro inondazioni in Renania-Palatinato e Nord-Reno-Vestfalia: una cosa mai vista in Germania, sia per dimensioni (da hurricane americano o tifone asiatico, con quasi 200 morti, interi paesi e infrastrutture spazzati via e danni incalcolabili) sia per inefficienza delle autorità locali che non hanno comunicato tempestivamente alla popolazione l’allarme arrivato invece per tempo. “Il sistema di allarme europeo ha funzionato, è scattato il 10 giugno (l’inondazione è cominciata il 14), se fosse stato dato in tempo si sarebbero potute evitare decine, forse centinaia di vittime: è omicidio colposo, la procura indaga”, sottolinea Metzger.
Pasticci e caos anche nella pandemia, dai ritardi con mascherine e vaccini al flop della Warn-App (la Immuni tedesca) e di internet e l’insegnamento digitale a distanza nelle scuole: secondo Metzger, è stato “un anno e mezzo di fallimenti delle prestazioni evidenziato in Germania”. E poi la turbolenta campagna elettorale. La scelta di Laschet alla leadeship della Cdu al posto di Friedrich Merz (esponente dell’ala conservatrice che avrebbe significato una rottura con l’era Merkel), e anche a candidato cancelliere al posto di Markus Söder (governatore della Baviera e leader Csu, dato per favorito in tutti i sondaggi con una spinta per l’Unione ben oltre il 30 per cento) è stata secondo Metzger dettata da logiche di partito. Non si dice però affatto sicuro che a conti fatti con Söder, un “abile opportunista”, le cose alle urne andrebbero meglio. Nei sondaggi la Csu non brilla e in Baviera perde l’8 per cento rispetto alle ultime legislative, osserva: “Evidentemente il bavarese non convince tutti”. Inoltre non bisogna sopravvalutare la “Kanzlerfrage”, la questione del cancelliere. Si votano i partiti e alla fine possono pesare anche fattori come la fedeltà degli elettori che, anche se delusi, nell’urna finiscono poi per mettere la crocetta dove l’hanno sempre messa. Senza contare che il 25 per cento degli elettori sono ancora indecisi. Come dire: da qui al 26 settembre le cose possono cambiare e per Laschet, forse, non è persa l’ultima speranza.
La partita per la cancelleria è ancora aperta anche se a questo punto, con la Baerbock fuori dal gioco, si disputa solo fra Laschet e Scholz. Anche per Spiegel, Laschet è risultato poco brillante e perdente nel duello tv, ma proprio per questo alla fine potrebbe vincere perché la sua strategia è concentrarsi sullo zoccolo duro dell’elettorato Cdu: tradizionale, fedele, detesta gli esperimenti e vuole stabilità e affidabilità, a scapito magari dei contenuti.
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