A Vladimir Putin Aljaksandr Lukashenka non è mai piaciuto. In molte occasioni – l’ultima durante un suo intervento in aprile in cui ha detto che il bielourusso non è certo perfetto, ma comunque va difeso – ha sottolineato quanto poco stimi il dittatore di Minsk. Sicuramente non ama la goffaggine di Lukashenka, ma ciò che ha sempre infastidito Putin era il tentativo del bielorusso di stare in equilibrio tra occidente e Russia, anzi, anche di fare qualche dispetto a Mosca, se necessario, come quando si presentò all’insediamento del presidente ucraino Petro Poroshenko, simbolo della svolta occidentalista ed europeista di Kiev. Ma adesso Lukashenka non ha più forza per puntare i piedi, non ha più soldi, non ha armi, non ha elettori, ha un sistema di potere sempre più consumato dallo scoppio delle rivolte e dalle sanzioni occidentali. Lukashenka si è messo in vendita, per salvare se stesso, dittatore di una nazione che lo scorso anno, con le elezioni e poi con le proteste, gli ha fatto capire che di lui non vuole più saperne.
La vendita era il senso della visita di ieri in Russia, il quinto incontro in un anno tra Putin e Lukashenka e a muoversi è stato sempre lui, sempre con una richiesta, sempre nel tentativo di salvare il suo potere. Sul tavolo c’erano vecchi accordi, 28 punti, che prevedono una più stretta collaborazione tra Mosca e Minsk. Ossia una più stretta ingerenza di Mosca sugli affari di Minsk, soprattutto in tre campi: politico, energetico, militare. Ogni viaggio che Lukashenka intraprende verso Putin è per chiedere soldi, e a ogni viaggio la Bielorussia perde un pezzo della sua sovranità. Quando negli anni passati il dittatore cercava di mettere in dubbio l’amicizia tra Mosca e Minsk, quando si faceva forte, fingeva di avvicinarsi all’Ue, lo faceva perché sapeva che ai suoi cittadini, filorussi ma fieri della loro indipendenza, non piaceva l’idea di coltivare una maggiore integrazione che potesse sfociare in un’unione tra i due stati.
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