“Sono vent’anni che sogniamo questo momento”, ci dicono i talebani dentro a una base degli americani che ora è loro (come tutto il paese). Qui il tempo è passato più veloce, riscattato dalla vittoria
Jalalabad, dal nostro inviato. Quando vent’anni fa il gruppo terroristico al Qaida attaccò Manhattan e il Pentagono e uccise migliaia di americani anche grazie alla protezione dei talebani in Afghanistan, il pensiero comune fu che la reazione degli Stati Uniti sarebbe stata memorabile. Niente sarà più come prima si diceva spesso in quei giorni e tra queste cose che non sarebbero state mai più come prima c’era anche l’Afghanistan controllato con modi brutali dai talebani. O almeno così si credeva. In effetti agli inizi successero cose memorabili: a metà novembre 2001, dopo appena cinquanta giorni di guerra, i talebani fuggirono dalla capitale Kabul incalzati dai bombardieri americani e da milizie avversarie. Sul terreno, la notte della vittoria, c’erano soltanto duemila soldati americani. La guerra era leggera e tecnologica, il nemico aveva commesso un errore madornale ad assalire le città americane e sarebbe stato spazzato via – come del resto meritava considerato che ignorava i diritti umani e sparava alle donne nello stadio della capitale. Il conflitto in Afghanistan aveva ragioni strategiche, c’era da eliminare la minaccia che veniva da territori fuori controllo. Ma era anche un simbolo: non era tollerabile che i talebani offrissero protezione impunita ai terroristi e sfidassero l’occidente. Era necessario ristabilire i rapporti di forza, rimettere in sesto l’ordine delle cose. Nessuno pensava che gli Stati Uniti, l’unica superpotenza rimasta in piedi, non avrebbero fatto nulla dopo gli attentati.
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