Incredibile Teheran
Credevamo che l'Iran volesse l'accordo atomico. Non così in fretta
L'intesa, e dunque lo stop alle sanzioni, è ancora probabile, ma da tre mesi a questa parte la situazione è diventata più scivolosa e i segnali da univoci sono diventati contraddittori.
Sembrava scontato che l’Iran volesse tornare all’accordo sul nucleare. Era intuitivo, logico, e le previsioni degli esperti in tal senso erano ben argomentate. Innanzitutto perché lì la crisi economica è molto seria e da quasi due anni aggravata da quella pandemica. La fine delle sanzioni non è soltanto la premessa per investimenti futuri, è utile subito per scongelare dalle banche straniere almeno ottantaquattro miliardi di euro che alla Repubblica islamica servirebbero urgentemente. Sugli investimenti stranieri, anche se la strategia iraniana è guardare ai paesi vicini e ad est (coronata pochi giorni fa con l’ingresso da membro permanente nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai), molto meno agli occidentali, la fine delle sanzioni americane è comunque indispensabile per gli investimenti cinesi.
Questi ultimi pensano ai loro affari e non hanno intenzione di arrischiare le proprie transazioni finanziarie internazionali per far contento l’Iran. C’è poi un altro elemento a sostegno delle previsioni che davano l’accordo come imminente: sia gli Stati Uniti sia l’Iran si tengono a debita distanza da tutte quelle azioni che possono in qualche modo pregiudicarlo e che in altri contesti avrebbero magari compiuto. Autorevoli analisti avevano scommesso sul ritorno al Jcpoa (l’accordo sul nucleare iraniano) entro il terzo trimestre di quest’anno. Oltre a tutti i punti già elencati, il postulato era che la guida suprema Ali Khamenei e il nuovo presidente conservatore - all’epoca ancora in campagna elettorale - avevano dato luce verde all’accordo e per questo non si vedevano più ostacoli all’orizzonte. Le bozze stese durante il sesto round di colloqui tra le parti a Vienna erano sostanzialmente definitive e a quel punto l’Iran aveva tutto l’interesse a chiudere subito proprio per inaugurare la presidenza di Ebrahim Raisi con un successo e nel contesto di una ripresa economica che sarebbe stata automatica.
Ma il terzo trimestre del 2021 finisce tra meno di dieci giorni e non solo l’accordo non c’è, l’Iran - dalle elezioni del 18 giugno - non è mai più tornato al tavolo dei negoziati di Vienna. Se tutte le considerazioni di partenza restano vere, la conclusione era affrettata. Lo ha ripetuto più volte Henry Rome - vicedirettore delle ricerche all’Eurasia Group ed esperto di Iran - mentre interveniva a Warcast, il podcast di War on the Rocks. Era stato lui, e a lui si erano aggiunti moltissimi altri, a prevedere che il ritorno al Jcpoa sarebbe avvenuto entro la fine dell’estate. Nella puntata dal titolo “Ripensare la posizione dell'Iran rispetto ai colloqui sul nucleare”, Rome ripete più volte: “Mi sono perso qualcosa, ci siamo tutti persi qualcosa”. E lascia intendere come non sia mai una buona idea dare per scontato l’esito di una vicenda quando si tratta di Iran, perché anche se un ragionamento fila liscio, bisogna tener conto che è nello stile della Repubblica islamica procedere per vie decisamente controintuitive.
Il Jcpoa è ancora sul tavolo, e un accordo è ancora probabile, ma da tre mesi a questa parte la situazione è diventata più scivolosa e i segnali da univoci sono diventati contraddittori. Se, dopo mesi di stallo, stanno tornando in funzione le telecamere dell’Agenzia internazionale per il nucleare (questo non significa che abbiamo il film di quello che succede nelle centrali iraniane, quelle telecamere registrano all’infinito ma i filmati gli occidentali li vedranno solo dopo e se si tornerà all’accordo), dall’altra parte ci sono i ritardi e il fatto che la delegazione iraniana, pur promettendo che i colloqui riprenderanno presto, si è di fatto volatilizzata. Soprattutto, c’è la nomina a viceministro degli Esteri di uno dei più intransigenti oppositori dell’accordo.
Si tratta di Ali Bagheri Kani, prende il posto di Seyed Abbas Araghchi che ha guidato la delegazione iraniana a Vienna ed era arrivato a quel sesto round di colloqui prima delle elezioni, quando si pensava che la partita fosse chiusa. Bagheri Kani è un principalista imparentato con l'ayatollah Khamenei ed è stato il vice di Saeed Jalili, un potente politico e diplomatico iraniano famoso fuori dai confini soprattutto perché ha sempre fatto il possibile per mettere i bastoni tra le ruote all’accordo con gli occidentali. Una linea su cui Bagheri Kani lo ha sempre seguito e, come responsabile della campagna elettorale di Jalili alle ultime elezioni, il suo argomento di discussione preferito era dare addosso ai riformisti “traditori” che si sono fidati degli occidentali siglando un accordo che è stato “la peggiore sciagura” dell’Iran.