Prendere sul serio Zemmour
Macron gli risponda senza gli equivoci dell’ipercorrettezza multiculti
Occhio alla Francia, e all’Europa intera. Con la candidatura alle presidenziali di Eric Zemmour, in stato avanzato sebbene non ancora ufficializzata, divampa qualcosa di più e di diverso da una semplice battaglia politica o elettorale, esplode di nuovo una furiosa guerra culturale. La differenza è nota e notevole: in una battaglia politica sono in gioco rapporti di potere, interessi sociali e programmi di governo, ma in una guerra culturale a queste tre dimensioni si aggiunge uno scontro sui criteri di vita e di pensiero, sulla visione ultima delle cose, e più che su un modello di società sul suo destino, sulla nozione di umanità storia e fede che viene al centro della zuffa. La battaglia politica può entro certi limiti restare fredda, può non degenerare nella logica di una guerra civile tra amico e nemico che ne è comunque il retroterra, il risvolto potenziale, ma una guerra culturale è per natura rovente, suscita una dinamica spietata di rigetto, odio, destituzione di valore dell’altro che è il nemico identitario.
In apparenza Zemmour è come Trump, un nazionalista, Make France Great Again. Ma Trump è un brigante e un ignorante istintivo, un demagogo, un mercante di sé stesso e delle sue bellurie, mentre Zemmour è un giornalista, un intellettuale e un brillante oratore e scrittore politico, oltre che un mezzo fissato patologico, la specie di cui fu fatta la classe dirigente della Rivoluzione francese e che poi, fino a Novecento inoltrato, si è disseminata, particolarmente in Francia ma non solo, nei diversi rivoli intercomunicanti della sinistra, della destra e della zona grigia tra le due configurazioni ideologiche, con frequenti passaggi e commistioni (vedi il libro di Roberto Della Seta su rossi e neri, qui recensito di recente).
Zemmour ha un dossier lungo così di accuse, e due condanne, per incitazione all’odio razziale. E’ un ebreo algerino assimilato, di sé rivendica l’essere un berbero, radici popolari, bocciature all’ingresso della scuola delle élite, una formazione personale strappata con unghie e denti, una lunga pratica di giornalista e comunicatore sulla stampa alla radio in tv, un successo di pubblico enorme, madornale, con apparizioni e libri. Ha un viso aguzzo, parla un francese sontuoso e acuminato come il suo profilo, fa innamorare spesso di sé la gente, anche sbagliata e con venature profondamente razziste e in qualche caso antisemite, e provoca la detestazione furiosa di altrettanta gente, anche giusta, anche semplicemente tollerante, che si aggiunge ai conformisti dello sciame politicamente corretto, i più brutali e censorii (cancel culture).
Zemmour divide come nessuno. Naturalmente è antifemminista, critica la femminilizzazione della società. E’ tendenzialmente bonapartista, vive nel mito dei grandes hommes. Sa organizzare le sue idee, ma spesso si riduce in schiavitù della loro caricatura nevrotica. Aderisce alla teoria del grande rimpiazzo etnico e dell’invasione musulmana in Europa e in Francia, formalizzata per la prima volta come tale da un simpatico aristocratico omosessualista in odore di antisemitismo larvale, lo scrittore raffinato Renaud Camus. Vuole il rimpatrio, la remigrazione, anche se non ha mai detto “deportazione” al Corriere della Sera, in un’intervista che fece scandalo. Detesta l’universalismo, che è una radice decisiva dell’ideologia francese, e il cosmopolitismo, che è la sostanza stessa dell’Illuminismo, ma per paradosso è sostenitore della più radicale e intollerante idea di laïcité, quella frontiera illuminista per cui il ministro dell’Interno di Macron ha invitato o “convocato” il capo dei vescovi francesi, il gesuita innocente e pasticcione che ha aperto la strada, con il rapporto Sauvé sulla pedofilia del clero, per la rimessa in discussione del segreto confessionale imposto dal diritto canonico e oggi sotto attacco dentro e fuori la chiesa. Sui temi societari, per esempio l’aborto, ha una posizione più che giusta, sostiene che la tutela di una maternità consapevole è stata trasformata nella banalizzazione del diritto all’aborto, come fosse una normale operazione di appendicite. Sospetto che sull’eutanasia la pensi come lo scrittore, un altro fissato di talento, Michel Houellebecq, che la scongiura e danna come emblema della morte dell’occidente.
Gli elementi della guerra culturale ci sono tutti. Nei sondaggi Zemmour senza ancora essere candidato ufficiale ha scompaginato la destra post gollista e i lepenisti, prendendo una comoda e in certo senso insidiosa posizione di sfida a Macron, che è il suo opposto simmetrico, anche troppo (i socialisti di Hidalgo non ce la fanno a decollare dalle loro piste ciclabili, vabbè). Francia ed Europa sarebbero tramortiti da un successo delle idee di Zemmour, che è indubitabilmente un uomo intelligente ma un feroce estremista, direi anche un maniaco; ma sarebbe una tragedia se queste idee fossero combattute con l’intolleranza fin qui mostrata dai tolleranti, cioè con una logica (Zemmour è il giornalista più amato e licenziato di Francia, una bestia nera che i suoi avversari vorrebbero in carcere, uno al quale non viene riconosciuto il diritto alla dissidenza). Le guerre culturali non si vincono così, e se si vincono così sarebbe da augurarsi che si perdessero. A Zemmour bisogna rispondere afferrando il senso ultimo della sua clamorosa protesta, sfrondando senza risparmio e senza sconti la sua quota di pazzia e fissazione, eliminando gli equivoci della ipercorrettezza multiculturale che ci fece passare da Obama a Trump direttamente, persuadendo la folla e trasformandola in popolo e Repubblica. Speriamo che Macron ci riesca senza indulgere a un nuovo matraquage, a una bastonatura come quella che toccò a Jean-Marie Le Pen all’epoca di Chirac (il vecchio parà naturalmente non sta con la figlia ma con Zemmour).