Voto loffio a Baghdad
Meno iracheni vanno a votare adesso rispetto al 2005, quando lo Stato islamico faceva attentati ai seggi. Non credono più alle elezioni (e intanto vince Moqtada al Sadr). Il successore del generale iraniano Suleimani arriva allo spoglio
Mercoledì scorso lo Stato islamico in Iraq ha pubblicato un video di cinquanta minuti dedicato in modo specifico a spiegare perché le seste elezioni parlamentari nazionali che poi si sono tenute domenica sono un’offesa contro Dio e quindi a minacciare di morte gli elettori iracheni. Lo Stato islamico da sempre considera le elezioni un bersaglio legittimo per gli attentati. Quando ci furono le prime, domenica 30 gennaio 2005, mandò sette attentatori suicidi a colpire seggi e candidati politici soltanto nella capitale Baghdad, sparò colpi di mortaio contro le file di elettori e diede loro la caccia dopo il voto (erano riconoscibili perché avevano l’indice sporco di inchiostro). Questa volta il video di intimidazione è stato largamente ignorato e le minacce non si sono concretizzate in nessuna parte del paese. Eppure mai così pochi iracheni come domenica sono andati a votare da quando il paese è stato liberato dalla dittatura di Saddam Hussein nel 2003. L’apatia elettorale è stata notata da tutti gli osservatori, che in alcune aree hanno contato un’affluenza locale attorno al venti per cento e una cospicua assenza di giovani (nella capitale Baghdad è stata poco sopra al trenta). Nove milioni su venticinque aventi diritto hanno votato. E’ come se in sedici anni l’appuntamento elettorale avesse perso una parte del suo significato.
Una spiegazione possibile è che gli iracheni sono sfiduciati e non credono più nella possibilità di cambiare la situazione con il voto. Molti anzi temono di legittimare ancora di più il sistema corrente, che vede otto grandi partiti controllare l’Assemblea nazionale e tutto il paese grazie a un gioco spurio di clientele, alla spartizione delle risorse e – quando è il caso – all’uso della violenza. Se li votiamo, è una risposta ricorrente nelle interviste, è come se dicessimo loro che va tutto bene così e che anzi ne vogliamo di più.
Tra le ragioni della sfiducia c’è l’interferenza dei governi stranieri e soprattutto dell’Iran. Ieri, proprio durante la fase delicata dello spoglio (i risultati definitivi devono essere ancora comunicati), è arrivato nella capitale Baghdad il generale iraniano Esmail Qaani, capo delle operazioni all’estero delle Guardie della rivoluzione. Qaani è il successore del generale Qassem Suleimani, che era stato l’architetto del sistema di milizie filoiraniane che oggi si muove con spregiudicatezza tra Iraq e Siria e che proprio a Baghdad era stato ucciso da un drone americano. Suleimani si vantava di essere in grado di controllare la politica irachena.
Nell’ottobre di due anni fa migliaia di giovani erano scesi in piazza Tahrir nel centro della capitale e avevano occupato tre ponti sul fiume Tigri per protestare contro la paralisi del sistema iracheno. Il movimento Tishreen, dalla parola araba che indica il mese di ottobre, aveva resistito per mesi ma poi aveva dovuto cedere il controllo dei ponti e della piazza a causa degli attacchi – che avevano ucciso centinaia di manifestanti – , delle intimidazioni e della mancanza di sostegno. I tishrinis, i giovani del movimento, sono tra i primi adesso a considerare il voto un atto che non ha più valore politico. Proprio contro di loro, due anni fa, era arrivato d’urgenza a Baghdad il generale Suleimani, per dirigere le operazioni di repressione. Sapere che adesso il suo successore è in città a seguire lo spoglio non dev’essere il genere di notizia che entusiasma gli elettori giovani.
Dai risultati preliminari si registra un ottimo risultato del blocco di Moqtada al Sadr, predicatore sciita molto organizzato, che secondo i dati parziali ha 74 seggi su 329, una ventina in più rispetto al 2018.
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