dopo le elezioni tedesche
Imputato Laschet. I tanti responsabili della sconfitta elettorale della Cdu
È accusato di aver portato il partito di Merkel al tracollo. Ma i problemi della politica tedesca vengono da molto più lontano
La vittoria, si sa, ha molti padri e la sconfitta, in genere, è orfana. Ma non in questo caso. Qui la vittoria sembra avere un solo intestatario, e la sconfitta una paternità. Il risultato delle legislative il 26 settembre in Germania incorona vincitore lo sfidante socialdemocratico Olaf Scholz, che ha vinto quasi da solo contro un partito moribondo. E condanna alla sconfitta il partito cristiano democratico della cancelliera Angela Merkel, guidato alla rovina dal candidato cancelliere Armin Laschet. Dopo il disastro alle urne (24,1 per cento contro 25,7 per cento della Spd) nella Cdu-Csu si è fatto presto a trovare il colpevole, tutti d’accordo ad additare Armin Laschet. È lui, il leader della Cdu e il candidato dell’Unione alla cancelleria, il responsabile della disfatta.
Da gioviale incarnazione del carattere renano, Laschet è diventato una figura tragica. È sua la colpa se adesso, dopo 16 anni di placida amministrazione del potere con Angela Merkel, l’Unione dovrà andare all’opposizione, cioè il limbo olezzante degli sconfitti il cui perimetro fu descritto plasticamente in un’immagine famosa in Germania, evocata anni fa da un big della socialdemocrazia, Franz Müntefering. “Opposition ist Scheiße”! (l’opposizione è merda), disse nel febbraio 2004 il segretario designato (poi eletto) della Spd a una base in rivolta contro l’Agenda 2010 di Gerhard Schröder, nel tentativo di persuadere i compagni riottosi a non tirare troppo la corda pena la fine del governo. Schröder si era appena dimesso da leader dell’Spd per rimanere solo cancelliere e concentrarsi sulla riforma del lavoro, il progetto che ha impresso la firma al suo cancellierato. Come andò a finire è noto, il monito non servì: nel 2005 Schröder fu sconfitto, la Merkel divenne cancelliera e Müntefering vicecancelliere e ministro del Lavoro nel suo primo governo di grande coalizione.
Sono seguiti altri tre governi, di cui altri due di grande coalizione compreso l’attuale, dove Scholz è vicecancelliere e ministro delle Finanze, colui che decide dei crediti e i debiti. (Per inciso, strana coincidenza, in tedesco per dire debito e colpa, singolare e plurale, si usa la stessa parola: Schuld, Schulden). In tutto 16 anni di governi Merkel: nel complesso buoni anni per la Germania, segnati da molte crisi gestite dalla cancelliera con pragmatismo, integrità e disinvoltura nel ribaltare principi e posizioni senza remore ideologiche, orientandosi alla bussola del potere. Sul suo lascito gli analisti discutono da tempo e le opinioni sono divise. Di sicuro era chiaro a tutti che la successione non sarebbe stata una passeggiata, e non sarebbe stata figlia di consenso ma di lacerazione. Il processo è stato lungo e tormentato, a cominciare da quando la Merkel, nell’ottobre 2018, annunciò le dimissioni dalla carica di leader della Cdu che ricopriva dal 2000: un lungo travaglio per il partito, formatosi nei quasi vent’anni a immagine e somiglianza della cancelliera, e diviso al suo interno fra merkeliani e fautori (i conservatori vicini al mondo economico) di un ritorno alle origini della Cdu, virata con la Merkel sensibilmente a sinistra.
Il primo tentativo di gestire la propria successione fu spalleggiare la scialba candidatura di Annegret Kramp-Karrenbauer (Akk), eletta leader dal congresso a dicembre 2018 e naufragata presto nell’anonimato fino alle dimissioni a febbraio 2020, per rimanere solo ministra della Difesa. Adesso, dopo non avere vinto il mandato diretto nel suo collegio, ha rinunciato al seggio al Bundestag per fare posto ai giovani. Poi è stata la volta di Armin Laschet, eletto a metà gennaio 2021 al vertice del partito dopo essersela vista, come prima la Akk, con Friedrich Merz, capofila dei conservatori. Poi ancora, con voto della direzione Cdu, Laschet è stato imposto in aprile come candidato della Cdu-Csu nella corsa alla cancelleria sebbene la maggioranza nel paese, e molti anche nell’Unione, gli preferissero Markus Söder, il governatore della Baviera e leader Csu, nella convinzione che con lui si sarebbero vinte le elezioni.
Adesso Laschet è diventato il comodo capro espiatorio di una disfatta che in realtà porta la firma di molti. Certamente il leader Cdu e (ex) governatore del Nord-Reno-Vestfalia– carica che dopo la sconfitta elettorale perderà e per la quale ha già proposto un successore (Hendrik Wüst) – ha commesso un’infilata di errori imperdonabili per un aspirante alla cancelleria, ma vedere in lui l’unico responsabile del crollo della Cdu-Csu è quantomeno fariseo. La sua parabola, di mite renano, ridanciano e pacioccone (è uno dei pochi tedeschi che ride sempre) ha assunto connotati tragici che contrastano col personaggio. Nell’Unione, ma soprattutto nella sua Cdu, si contano i minuti perché tolga il disturbo e lasci libero il campo a quanti gareggiano per succedergli: sono in tanti e la guerra sarà accanita perché se l’Unione, come quasi certo, finisce all’opposizione, l’unica poltrona appetibile, oltre alla leadership, è quella di capogruppo Cdu-Csu al Bundestag: niente ministeri, niente presidenza del Parlamento, niente cancelleria. La sola ragione per cui ancora, a parte le solite bordate di Söder dalla Baviera, nel partito si trattengono e non l’hanno defenestrato è la speranza, a cui si è aggrappato Laschet, di un negoziato con Verdi e Liberali per una coalizione Giamaica nel caso le trattative di Scholz per una coalizione Semaforo dovessero fallire. Scenario remoto ma finché esiste anche una pur esigua chance, Laschet resta aggrappato al suo posto: un attimo dopo, se dovesse sfumare o non materializzarsi, scomparirà. La sopravvivenza politica di Laschet (60) non è quindi legata al suo partito, ma a Scholz e all’illusione che il cancelliere in pectore fallisca nei colloqui con i Verdi e i Liberali.
Costretto dagli eventi, Laschet ha annunciato che si farà da parte, ma vorrebbe gestire il processo per la scelta del successore consultando la base Cdu, gli organi direttivi e con un congresso straordinario che dovrebbe tenersi al più tardi a gennaio. La narrazione del colpevole è dominante. Anche la stampa nella quasi totalità si è accanita contro Laschet: all’indomani del voto la Taz, quotidiano di sinistra, lo ha definito “dead man walking”, ma anche gli altri non hanno usato il guanto: “Serve solo da capro espiatorio” (Merkur), “a meno di un miracolo, i compagni di partito lo butteranno via” (Spiegel), “chi glielo spiega a Laschet che è finita?” (Süddeutsche Zeitung), “Söder fa a pezzi Laschet”, “quanto andrà avanti ancora?” (Bild), è chiaro che Laschet “con l’elezione di Scholz a cancelliere se ne deve andare” (Welt). L’unico più contenuto è stato il quotidiano conservatore Frankfurter Allgemeine Zeitung: “a parte le critiche e il ridicolo di cui viene ricoperto, resterà qualcosa di lui? Sarebbe giusto”. Scaricare tutte le colpe su Laschet è facile: al netto delle sue carenze (errori personali e gaffes, una campagna elettorale incolore, un programma fiacco e un deficit di carisma), è evidente che il carico va suddiviso fra molti responsabili e che una parte di esso spetta proprio alla Merkel. Innanzitutto è stato il partito, il congresso prima e la direzione poi, che lo ha voluto prima alla guida della Cdu e poi candidato alla cancelleria. Le alternative ci sarebbero state ma si è preferito optare per la soluzione più comoda, meno traumatica e di rottura con il passato e il presente della Cdu. Per chiunque sarebbe stato arduo traghettare il partito nella transizione del dopo Merkel, e non è detto che altri al suo posto vi sarebbero riusciti. Ma era stata proprio la Merkel a spingere per Laschet vedendovi un garante della sua politica, un successore che si era sempre detto affine, che non l’avrebbe rinnegata e non avrebbe rovesciato il suo monumento. Con un Merz o un Norbert Röttgen la sua eredità politica avrebbe rischiato. Anche con Laschet, come con la sua (iniziale) delfina Kramp-Karrenbauer, la cancelliera si è limitata a lanciarlo nell’arena salvo poi non alzare un dito per aiutarlo: tardive, forzate e inutili le sue tre comparse al fianco di Laschet negli ultimi tre comizi della sua campagna elettorale.
La sconfitta elettorale, con la perdita di 3,3 milioni (netti) di voti (da circa 14 milioni nel 2017 a 11 ora) non può essere ascritta solo a Laschet. È il segnale di un problema strutturale della Cdu-Csu, il sintomo: Laschet è l’effetto, non la causa del problema. Per il politologo Werner Patzelt la catastrofe elettorale dell’Unione è una conseguenza dei venti anni di leadership di Merkel, della sua “ipoteca strutturale” che pesa come piombo sulle gambe della Cdu: per affrontare la maratona che l’aspetta per uscire dalla crisi e risollevarsi dal tracollo elettorale, il partito “dovrà liberarsi dell’eredità tossica della Merkel”. I critici della Merkel e del suo lungo cancellierato denunciano un deficit di orientamento politico, appiattimento tematico, assenza di dibattito e una specie di cappa sedativa piombata sul paese. La strategia della “smobilitazione asimmetrica” (lo spostamento dell’asse del partito a sinistra) a spese di Spd e Verdi ha funzionato finché la Merkel garantiva un corso a sinistra della Cdu-Csu, ma una volta uscita di scena, gli elettori di sinistra che avevano votato l’Unione per via della Merkel, o che avevano disertato le urne, sono tornati all’originale, votando a sinistra. Come si è visto alle elezioni, con i massicci flussi elettorali dalla Cdu verso Spd, Verdi e anche Liberali: quasi 2 milioni di voti (lordi) emigrati verso la Spd, oltre 1 milione verso i Verdi e 1,3 verso la Fdp.
La Spd, che nel 2005 con Schröder raggiunse il 34,2 per cento e negli anni della Merkel è via via è scivolata fino al 15 per cento nei sondaggi di pochi mesi fa, ha ripreso quota solo alle ultime elezioni, le prime senza la cancelliera. Un altro aspetto – generale in Europa ma che la Merkel forse ha favorito in Germania – è il declino dei grandi partiti popolari. Declino dovuto a tanti fattori ma anche all’assenza di posizionamento programmatico e di personale carismatico. Il declino non è arrivato di colpo con Laschet. Alle elezioni nel 2017, le ultime di Merkel, la Cdu-Csu incassò un record negativo: 32,9 per cento. Molti gli esempi della smobilitazione asimmetrica operata della Merkel, sempre in sintonia con lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, e i sondaggi: la linea liberista annunciata da leader Cdu al congresso del 2003 a Lipsia, poi congedata quando vide che non trovava consenso, l’abolizione della leva, le quote di genere, il salario minimo garantito, le unioni civili, l’addio al nucleare, l’apertura sull’immigrazione. Un partito in crisi di identità nel quale i suoi tradizionali elettori, senza più la Merkel che ne era il collante, non sono più a loro agio e nel quale, senza di lei, non si ritrovano più neanche i nuovi elettori. In questo senso Laschet, il buontempone conciliante del Nord-Reno-Vestfalia, senza spigoli e contorni, prodotto finora di successo dell’apparato, era il candidato ideale per la cancelleria, sintesi perfetta di quella essenza ibrida e fluida che ha caratterizzato la Cdu nell’ultimo ventennio. Ora il partito guarda nell’abisso sapendo di poterci finire dentro.
Probabilmente non solo Laschet, ma nessuno avrebbe potuto fermare l’erosione. Con Söder l’emorragia di voti forse sarebbe stata minore, ma non è detto che avrebbe avuto i numeri per una coalizione Giamaica. Il governatore bavarese, che non si è mai peritato di nascondere di considerarsi il migliore candidato cancelliere, e che ha alternato siluri diretti contro Laschet a finte attestazioni di appoggio, è un altro dei titolari del fiasco della Cdu-Csu. Per lui la resa dei conti arriverà alle regionali in Baviera nel 2023. Allo stato attuale, le cose sembrano marciare verso una coalizione Semaforo, anche se fino all’ultimo Verdi e Liberali si sono tenuti aperta l’opzione Giamaica con la Cdu-Csu. Difficilmente però Scholz, navigato negoziatore, si farà sfuggire l’occasione di conquistare la cancelliera e diventare il quarto cancelliere Spd (su cinque Cdu) della Bundesrepublik dopo Willy Brandt, Helmut Schmidt e Gerhard Schröder, al costo anche di fare parecchie concessioni ai Verdi e soprattutto ai Liberali. Sulla parabola politica di Laschet, fortunata a livello regionale, fallimentare a quello federale, cala il sipario. Come ha detto un altro grande sconfitto, Peer Steinbrück, lo sfidante socialdemocratico della Merkel nel 2013, “Laschet è la sconfitta personificata dell’Unione” ma non è il solo responsabile, ha dovuto accollarsi il carico di 16 anni di politica della Merkel: “l’Unione ha perso profilo e ha fatto l’errore di puntare su un candidato con ancora meno profilo”. Ormai Laschet ha l’aura del perdente e i perdenti in politica sono tossici. Per lui non resta che il ritiro a casa ad Aquisgrana o la presidenza di qualche fondazione vicina al partito, pratica questa dove la Cdu è in genere generosa con i suoi figli, dopo averli demoliti.
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