Il Messico caccia via gli americani
Infatuato di Trump e gelido con Biden, il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador vuole a tutti i costi ridurre la presenza dei vicini del nord. Ha molto più a cuore questa guerra che quella ai narcos (che invece va proprio male)
Procede spedita ma senza clamore la campagna del presidente messicano Andrés Manuel López Obrador per cacciare gli Stati Uniti dal paese. Lo scorso 8 ottobre il segretario di stato americano, Antony Blinken, era in Messico per discutere di un nuovo accordo sulla sicurezza che ridisegnerà i rapporti bilaterali tra i due vicini. Si chiama Intesa Bicentenaria (l’anno prossimo sono duecento anni di relazioni diplomatiche) e riguarda la lotta al crimine organizzato e la prevenzione dei delitti transfrontalieri. La novità è che al centro ci sarà il principio di reciprocità, cioè l’opposto di ciò che c’era prima: una richiesta di aiuto. Su questa si basava il vecchio patto siglato nell’era Bush e, sotto il Rio Grande, del presidente Felipe Calderón. Era il 2007, il Messico era disperato, i narcotrafficanti sembravano invincibili ma, al Messico, gli Stati Uniti sembravano i più invincibili di tutti. La guerra al terrore non si era ancora conclusa in modo triste e affatto trionfante, c’era un’atmosfera diversa e si credeva possibile intraprendere altre missioni ambiziose.
I due paesi siglano l’intesa di Mérida e il presidente messicano è un pozzo di gratitudine. E’ tutto finanziato dal dipartimento di Stato americano, c’è il programma con dentro tre miliardi di dollari per la presenza degli americani in Messico e mezzo miliardo di dollari per le armi delle forze di sicurezza locali. C’è il “Mexico Technical Surveillance System” che dà agli Stati Uniti legittimo e pressoché illimitato accesso alle comunicazioni nel paese via rete telefonica o internet, per intercettazioni e geolocalizzazioni. Nella capitale, in un grattacielo a pochi metri dall’ambasciata statunitense, si insediano nove agenzie d’intelligence americane tra cui ovviamente la National security agency (Nsa), la Dia (Difesa) e la Nro (analisi satellitari). E’ la nuova guerra alla droga e, per come l’abbiamo conosciuta, dovrebbe finire a gennaio, quando è previsto che si concludano i negoziati e che l’Intesa Bicentenaria sia pronta per la firma, mettendo così una pietra sopra l’esperienza del Piano Mérida che l’attuale presidente non ha mai sopportato.
Durante il primo round di negoziati sia i messicani sia gli americani hanno cercato di parlare il meno possibile di immigrazione. Anche se nell’anno fiscale 2021, che è finito a settembre, le autorità statunitensi hanno arrestato oltre un milione e settecentomila migranti lungo il confine, cioè il numero più alto di sempre (i dati non sono ancora pubblici, ma il Washington Post è riuscito a ottenerli e li ha diffusi due giorni fa). Visto che una soluzione condivisa sul punto è tutt’altro che a portata di mano, entrambe le parti sembrano voler tenere separati i piani per evitare che i tempi per raggiungere la nuova Intesa Bicentenaria si dilatino a dismisura.
Amlo è al potere dal 2018 e da allora ha impiegato moltissime energie per ridimensionare il ruolo del vicino ingombrante. Più di quelle adoperate per combattere corruzione e narcotraffico e per risollevare le sorti economiche del paese, almeno a giudicare dai risultati ottenuti sui rispettivi fronti. Da un populista di sinistra e da un nazionalista come lui ce lo si poteva aspettare, ma non era scontato che riuscisse a inanellare tanti successi senza creare scompiglio e senza incontrare resistenze, e il fatto che inceda con una certa determinazione ma sempre evitando di dare spettacolo è una parte della spiegazione.
López Obrador non è un populista della nuova scuola, quella degli anni dieci del Duemila che ha travolto gli Stati Uniti nel 2016, alcuni paesi europei tra cui il nostro, e che in America latina ha prodotto – su tutti – Jair Bolsonaro. E’ un populista vecchia maniera, di quelli per cui sovranismo e socialismo sono fatti per stare insieme. E’ degno della tradizione che ha visto nascere nel subcontinente latinoamericano il primo vero populismo contemporaneo: è un peronista. E se sui muri delle città italiane negli anni Settanta si poteva trovare la scritta “Viva il compagno Perón” con la stessa probabilità di “Viva il camerata Perón”, non bisogna stupirsi troppo se Amlo in certe sedi difende il regime venezuelano di Nicolas Maduro ma poi rimane galvanizzato da Donald Trump.
Che si fosse invaghito dell’ex presidente degli Stati Uniti molto al di là delle cortesie diplomatiche non faceva ben sperare per i suoi rapporti con Joe Biden, che infatti sono freddi. Tra López Obrador e Trump c’è stata l’affinità elettiva di due populisti che sanno intendersi con poche parole, anche se ad un certo punto il primo sembrava proprio essersi preso una sbandata per il secondo. Non uno di quegli amori per nulla corrisposti, ma di quelli in cui scarseggia la reciprocità e va bene a entrambi. Un’infatuazione per cui il Messico ha tollerato molte cose contro il proprio interesse: le parole di fuoco dell’ex presidente contro i messicani, un nuovo accordo commerciale più svantaggioso e soprattutto il “Remain in Mexico” – il provvedimento per cui i migranti che vogliono raggiungere gli Stati Uniti non possono arrivarci per poi chiedere asilo, vengono rispediti indietro e devono aspettare l’eventuale permesso dalle autorità statunitensi sul territorio messicano. Un pessimo affare per il Messico, un regalo per Trump.
I due si sono visti l’ultima volta nel luglio dello scorso anno ed è stato un bilaterale surreale. L’articolo pubblicato dall’Economist per raccontarlo cominciava così: “La storia ricorderà il vertice tra il Messico e gli Stati Uniti dell’8 e 9 luglio come uno dei più strani”. La pandemia correva e gli incontri tra leader non si usavano più, non sembrava strategico esporsi tanto a favore di Trump mentre si avvicinavano le elezioni e considerando che per lui le cose non si stavano mettendo bene. In più Amlo è di sinistra e con Biden si conoscevano da tempo. C’era anche la ciliegina sulla torta: il presidente messicano non usa i voli di stato e quindi – con il Covid – ne aveva preso uno commerciale, non c’era un diretto e ha pure dovuto fare scalo. “Non è chiaro cosa Amlo possa ottenere da questo vertice a parte le miglia del programma frequent flyer”, era stata la sentenza dell’Economist.
Perché il leader messicano si è comportato così? Perché si è concesso tanto e ha riempito di regali quella grande potenza che in tutta la sua storia politica ha sempre considerato arrogante e detestabile? Ovviamente perché, per Amlo, vedere gli Stati Uniti ripiegati su se stessi non aveva prezzo. L’isolazionismo di Trump gli era parso messianico e lo aveva stregato. Appena è arrivato Biden, ha accelerato nel blindare tutto, affinché la direzione impressa negli ultimi anni non venisse messa in discussione dal nuovo inquilino della Casa Bianca. Nella lettera di congratulazioni che ha spedito al vincitore delle presidenziali il 15 dicembre c’era scritto: “Siamo certi che con Lei sarà possibile continuare a rispettare i princìpi della nostra Costituzione, in particolare quello che riguarda il non intervento e quello che riguarda l’autodeterminazione dei popoli”. Benvenuto, ma stammi lontano. Le cose sono effettivamente andate secondo i migliori auspici di Amlo, e la nuova Intesa Bicentenaria ne segnerà il sigillo.
Una parte della spiegazione è appunto che López Obrador ha saputo muoversi bene politicamente e sfruttare la presenza di Trump alla Casa Bianca, l’altra parte della spiegazione è che i risultati della guerra alla droga in Messico non sono stati brillanti, alcune operazioni pasticciate sono finite sui giornali e il tutto è stato gestito con un malcelato senso di colpa dall’Amministrazione Obama, con disinteresse da quella Trump e accettando di mettere la parola fine da quella Biden.
Dalla firma del Piano Mérida sono passati quasi quindici anni e il Messico non è diventato un posto più sicuro. Nei primi dieci anni il numero di omicidi ogni centomila abitanti è quasi raddoppiato e anche nel 2021 le prime sei città più pericolose del mondo si trovano in Messico. Non è colpa della guerra alla droga, ma c’entra anche quella e comunque il dato è sufficiente a far ritenere ai più che la strategia non stesse funzionando. A peggiorare le cose è arrivata una figuraccia da cui era difficile riprendersi: l’operazione “Fast and furious”. Un programma segreto, una trappola architettata dalle agenzie statunitensi in Messico per stanare un po’ di narcotrafficanti da catturare o uccidere. Ma è andata malissimo. Durante il processo a Brooklyn contro Joaquín “El chapo” Guzmán – quando Amlo era già al potere e iniziava a minare il Piano Mérida – abbiamo scoperto che l’Atf (Bureau of alcohol, tobacco, firearms and explosives) dal 2006 al 2011 ha passato oltre il confine del Rio Grande 2.500 armi che sono finite ai cartelli della droga e soprattutto a quello particolarmente brutale di Sinaloa. Ovviamente l’idea era seguire le tracce dei contrabbandieri per poi arrivare ai capi, ma troppo spesso non ha funzionato. Oltre ai kalashnikov, l’Atf passava parecchi fucili di precisione Barrett M82 – che non sono antiuomo, ma servono contro i tir o gli aerei civili – e uno ce lo aveva in casa anche “El chapo”. La questione è esplosa quando le armi dell’agenzia americana sono state usate dai messicani per uccidere gli statunitensi della polizia di frontiera, la Us Border Patrol. Durante il processo di El Chapo a New York i pubblici ministeri federali, comprensibilmente, avevano fatto capire al giudice Brian Cogan che quella non era la sede adatta per parlare di “Fast and furious”. Quando ci si è spostati nella sede adatta, il Congresso degli Stati Uniti, un funzionario dell’Atf ha definito l’operazione così: “Una tempesta perfetta di idiozia”. Insomma, i più “rapidi e pericolosi” si erano rivelati i criminali messicani, non gli agenti statunitensi.
Ma se le cose sono già andate male con gli americani sul campo, bisogna comunque chiedersi se possono andare anche peggio senza di loro. López Obrador ha iniziato a ridimensionare il ruolo degli Stati Uniti nel suo paese già da un po’ di tempo. E’ dalla fine del 2018 che prova a tenere all’oscuro l’antidroga americana dei suoi progetti, e che il suo ministro degli Esteri dice pubblicamente che l’approccio degli americani “può condurre solo a dei disastri” e “la collaborazione in campo militare non è il modo migliore di affrontare i problemi della sicurezza”. Oltre alle parole sono arrivati i fatti, è il 15 dicembre e Amlo – nello stesso giorno in cui invia la lettera di congratulazioni a Biden – adotta la sua riforma della sicurezza nazionale. Se prima le agenzie federali e i servizi segreti americani potevano agire in autonomia, adesso sono autorizzati a compiere soltanto quelle operazioni che hanno già passato il vaglio delle autorità messicane. Ma, da allora, le cose continuano a precipitare. Il tasso di omicidi cresce ancora, le sfilate dei cartelli su mezzi blindati – armati fino ai denti, con divise e mezzi brandizzati – continuano anche molto vicine al Texas e fanno faville sui social network. In Messico è nata una nuova forza di sicurezza nazionale ma non funziona, c’è stata una spedizione punitiva impressionante contro i poliziotti in cui nessuno dei bersagli è riuscito a difendersi, sono morti tutti. C’è stata una scena che i messicani non dimenticheranno: un commando armato come fosse in uno scenario di guerra ma che invade il centro della capitale Città del Messico e per pochissimo non ammazza il capo della polizia. Il controllo del territorio rimane una fantasia e questa è una questione di sicurezza nazionale per entrambi i paesi, sopra e sotto il Rio Grande.
Alla fine del 2019, mentre Amlo lavorava alla sua riforma, è stata massacrata un’intera famiglia messicano-statunitense al confine tra l’Arizona e lo stato di Sonora, c’è stata una particolare attenzione mediatica, molto rumore sui network americani, e il Wall Street Journal è andato giù pesante: “Il Messico non sa controllare il proprio territorio quindi devono farlo gli Stati Uniti”. E poi “non va escluso un intervento militare”. La questione della sovranità è sempre stata un’ossessione per López Obrador, e da alcuni mesi – da quando ha scoperto che cinquanta persone molto vicine a lui sono state spiate con il sofisticatissimo spyware Pegasus – il presidente è diventato ancora più paranoico. Tra i dispositivi controllati ci sono anche gli smartphone del capo del suo staff, di suo figlio e di sua moglie, e pare che donna Beatriz Gutiérrez Müller – una first lady relativamente riservata che rifiuta il titolo di first lady perché patinato ma vuoto di responsabilità (Evita Perón si rivolta nella tomba) – abbia dato in escandescenze. Se Amlo nella campagna per allontanare gli americani sa di avere dalla sua i messicani che lo hanno eletto, sa anche che la sovranità della Repubblica che amministra è tuttora intaccata più dai cartelli del narcotraffico che dagli Stati Uniti. Finora, tutto quello che il presidente messicano ha fatto in proposito non ha funzionato.