il ritratto
Chi è Abdel Fattah al Burhan, il generale che ha preso il potere in Sudan
Il nuovo capo di stato militare vuole che non si parli di golpe, ma di un "passaggio di consegne necessario" fatto per ragioni di sicurezza nazionale. Ma a giudicare dai rapporti di forza interni all’esercito è difficile crederlo
Il primo elemento concreto per provare a capire il nuovo golpe in Sudan è un discorso tenuto in tv proprio dal nuovo capo di stato militare che ha preso il potere. Lo scorso 25 ottobre, a poche ore dall’arresto, e del trasferimento in una località sconosciuta, del premier Abdalla Hamdok e di almeno cinque tra ministri e consiglieri del governo, l’ufficiale militare Abdel Fattah al Burhan è apparso in tv consapevole di rivolgersi alla nazione e, allo stesso tempo, al mondo intero. Con uniforme ben in vista, tipico berretto verde e sguardo basso per leggere il discorso, Burhan ha detto innanzitutto che la presa di potere militare aveva un mandato popolare: “a migliaia cantavano slogan davanti al quartier generale delle forze armate, e le forze armate hanno risposto positivamente e hanno deciso di seguire la volontà del popolo”. Poi ha aggiunto che l’azione militare è stata necessaria a causa di “minacce alla sicurezza nazionale” e che questo era stato notato anche dal premier Hamdok lo scorso luglio e ottobre. Quindi le forze armate “che hanno il dovere costituzionale di mantenere la sicurezza e la sovranità della nazione” sono intervenute per evitare non meglio precisate “minacce politiche”.
Saltano all’occhio due cose: che Burhan sta mettendo le mani avanti reclamando una legittimità del colpo di stato, e che il suo fine ultimo è quello di rassicurare non tanto la popolazione (su quella i militari hanno sparato nelle scorse ore e, per contenere le proteste anti golpe, hanno ucciso almeno una decina di manifestanti) ma gli alleati della regione e le potenze globali. D’altronde gli Stati Uniti alla notizia del colpo di stato hanno annunciato di interrompere aiuti al Sudan per 700 milioni di dollari, e lo stesso potrebbe fare l’Unione europea.
Burhan, già capo del Consiglio Sovrano (che ha appena sciolto, insieme al governo), vuole che non si parli di golpe, ma di un passaggio di consegne necessario – e interno alla fase di transizione verso la democrazia – fatto per ragioni di sicurezza nazionale. Allo stesso tempo il nuovo governatore del Sudan si presenta al mondo come uomo di potere consapevole degli equilibri in gioco, ed effettivamente, stando alla sua biografia, lo è davvero. Durante la sua lunga carriera militare ha raggiunto posizioni di comando pur rimanendo relativamente sconosciuto. Per esempio è stato alla guida delle forze di terra sudanesi mandate nello Yemen nel 2015 come parte di una coalizione a guida saudita contro i ribelli Houthi sostenuti dall’Iran. Non è stato un affare da poco, soprattutto se consideriamo che in quel modo è stato sancito il definitivo allontanamento del Sudan da un suo alleato storico come l’Iran e il conseguente avvicinamento alla monarchia saudita. Burhan era salito alla guida del paese già nel 2019, dopo la cacciata del dittatore islamista Omar al Bashir che governava da tre decadi, anzi due mesi prima che lo stesso Al Bashir venisse destituito Burhan era stato nominato “ispettore generale dell’esercito”.
Stando a quanto scrive Willow Berridge, autrice di “Civil Uprisings in Modern Sudan”, Burhan avrebbe lavorato a stretto contatto con le Rapid Support Forces (anche in Yemen) ed è grazie a queste che nel 2019 è diventato, de facto, leader politico del paese. Le RSF sono forze paramilitari che fanno capo al governo sudanese, e alla luce di quanto dice Berridge si capisce come mai nella capitale Khartoum, nelle scorse ore, si sono visti diversi loro posti di blocco. Ma c’è un dato: si tratta di milizie direttamente collegate con quelle Janjaweed: le stesse che hanno commesso crimini di guerra e uccisioni di massa in Darfur. Se questi sono i rapporti di forza interni all’esercito sudanese è difficile credere, come ha detto Burhan nel suo discorso, che il golpe sia nato con l’intento di proteggere il periodo di transizione democratica e che nel 2023 verranno indette elezioni.
Il fatto che Burhan sia un capo politico consapevole degli equilibri della regione è un dato che non emerge soltanto dal discorso diplomatico e rassicurante tenuto in tv già dopo poche ore dall’arresto del premier Hamdok, ma anche da diversi episodi del passato, come le visite del 2019 (subito dopo la caduta di Al Bashir) in Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. D’altronde le monarchie del Golfo sono sostenitori cruciali per l’economia e lo stato sudanese. I primi 500 milioni di dollari arrivarono già nel 2019, ed erano una parte di un pacchetto di aiuti da 3 miliardi di dollari utile, evidentemente, a mantenere dei legami saldi con Khartoum.
Burhan – che è sostanzialmente un veterano dell’esercito che sta consolidando una posizione di potere acquisita due anni fa, ma che nasce ancora prima, da quando dopo l’accademia militare sudanese si formava in Egitto e Giordania – nel febbraio 2020 ha incontrato anche il leader israeliano Benjamin Netanyahu. L’incontro, avvenuto in Uganda, era parte dell’adesione del Sudan ai cosiddetti accordi di Abramo, cioè la progressiva distensione dei rapporti tra Emirati Arabi Uniti e lo stato di Israele. Un passo decisivo per un paese come il Sudan, che per anni ospitò Osama bin Laden.