la guerra sommersa
Così la sindrome Aukus riscrive la geopolitica mondiale
Ora la propulsione nucleare per i sottomarini crea una nuova alleanza militare in chiave anti Cina che rimescola tutto nel Pacifico (e da noi) per i prossimi decenni. Alcuni comandanti italiani ci spiegano come
"Fluida”. Per il contrammiraglio Michele Cosentino questa storia è così. In senso letterale e simbolico. In Marina dal 1974 al 2014, inizialmente a bordo di unità subacquee, Cosentino è uno degli esperti, tecnici, studiosi, sommergibilisti e alti ufficiali (in congedo) della Marina militare italiana che fanno parte del Cesmar, il Centro studi di geopolitica e strategia marittima. Sono stati consulenti e protagonisti di questa storia in esclusiva per il Foglio. Una storia che comincia il 15 settembre, quando il premier australiano Scott Morrison annuncia la sottoscrizione di un accordo denominato Aukus (la trilaterale Australia, Uk, Usa) per la realizzazione di sottomarini d’attacco a propulsione nucleare (Ssn, secondo la classificazione statunitense). Da allora questa storia si è tanto intricata che sembra la trama di un nuovo genere: la guerra sommersa del Terzo millennio. Una trama che si occulta nella grey zone, “quel limbo tra pace e guerra”, come la definisce il segretario alla Difesa britannico Ben Wallace, e “Below the Edge of Darkness”, sotto il limite dell’oscurità, quel mondo che rientrava nella “Teoria dell’abisso”, secondo cui la vita decresceva al crescere della profondità.
Questa storia così fluida si svolge in un teatro definito da flussi: nove decimi del commercio globale e circa due terzi di petrolio e gas seguono le rotte oceaniche. Sul fondo sono posati i cavi in cui scorre il 90 per cento dei dati della rete globale. Nelle acque dell’Indo-Pacifico del 2030 navigheranno tra i 250 e i 300 sottomarini sempre più potenti. Come ha detto al Foglio Collin Koh Swee Lean, specialista di strategie navali alla S. Rajaratnam School of International Studies di Singapore, “dall’inizio del XXI secolo il sottomarino è divenuto l’arma navale per eccellenza e un simbolo di potenza nazionale”.
Forse è per l’attrazione fatale esercitata da tale potenza che il governo australiano ha sottoscritto un accordo che sta rivoluzionando gli equilibri geopolitici. L’Australia diventerà il settimo membro di uno dei club più esclusivi al mondo: quello dei paesi che possiedono sottomarini nucleari, per ora composto da Usa, Russia, Cina, Uk, Francia e India.
“Gli Usa hanno fatto all’Australia un’offerta che non potevano rifiutare”, sintetizza l’ammiraglio Roberto Domini, già direttore del centro studi dell’Istituto di Studi militari marittimi. L’offerta americana è stata pagata dall’Australia cancellando in modo “brutale” il precedente contratto con la Francia: i cantieri della Naval Group avrebbero dovuto produrre 12 battelli d’attacco convenzionali (Ssk) denominati Attack. “Quello che abbiamo fatto è stato maldestro” ha ammesso il presidente Biden a Macron in un incontro privato alla vigilia del G20 di Roma. “Non è stato fatto con molta eleganza”. “In realtà gli Usa avevano già stemperato la rabbia di Macron sostenendo la Francia nella vendita tre fregate e tre corvette alla marina greca” commenta l’ammiraglio Domini. Il presidente francese, però, non ha perdonato gli australiani: allo stesso G20 ha accusato Morrison di avergli mentito. E Morrison ha replicato facendo filtrare attraverso i giornali l’sms con cui Macron aveva rifiutato di parlargli al telefono. Alla fine, a rimetterci davvero sono stati i cantieri italiani, favoriti per la commessa greca.
L’Aukus si sta rivelando ben più di un acronimo. Suona come un termine di psicologia militare per tutto ciò che implica e ha mandato in corto circuito i think tank strategici. Uno dei fattori che stanno innescando quella che si può definire la “Sindrome Aukus” è un equivoco di “strategia semantica”. “La propulsione nucleare non significa armamento nucleare, non necessariamente, ma è un argomento che fa presa”, dice Gian Carlo Poddighe, ex ufficiale del Genio navale ora dirigente d’impiantistica navale. I sottomarini australiani saranno “semplici” Ssn, “nuclear-powered attack submarine”, sottomarini nucleari multi-missione con armi “convenzionali”, a differenza degli Ssbn, sottomarini armati con missili balistici destinati a missioni di deterrenza nucleare. Per molti analisti, però, l’Aukus è la prima mossa in un nuovo grande gioco con pedine atomiche. “Gli Stati Uniti non hanno basi nucleari nell’Indo-Pacifico”, dice Giovanni Gumiero, ammiraglio di squadra in riserva che ha prestato servizio nei sottomarini, nel comando sottomarino di Taranto e nel Nato Atlantic Command.
L’Australia, invece, è completamente priva di un’infrastruttura industriale per la realizzazione e la gestione di sottomarini a propulsione nucleare. C’è quindi una coincidenza d’interessi che dovrebbe materializzarsi nella costruzione di un cantiere nell’Australia del sud. A cui dovrebbe seguire un centro d’addestramento per gli equipaggi. “Andrà a finire che gli americani daranno dei loro sottomarini con equipaggi misti”, dice Poddighe. “Un usato sicuro”, lo definisce il contrammiraglio Cosentino. “Non che i cinesi siano molto preoccupati. ‘Comprateli pure’, avranno detto, ‘tanto quando saranno operativi, non prima del 2040, noi avremo dei droni che potranno controllare tutto il Pacifico’”, commenta l’ammiraglio Domini. La Repubblica popolare sta investendo moltissimo in tecnologie ed è opinione diffusa che entro il prossimo decennio disporranno di droni in grado di rendere il mare “trasparente”. Nel frattempo, la Cina potrebbe anche aver colmato il gap tecnologico con la flotta americana.
Nella futura Millennium war, dunque, gli Ssn australiani potrebbero rivelarsi la scelta sbagliata. Anche se inevitabile. “Circolavano voci che avrebbero preferito i giapponesi: i loro sottomarini sono tutti alimentati con un avanzatissimo sistema di propulsione diesel-elettrica”, dice Cosentino. I sottomarini francesi, invece, erano l’ennesimo remake del sottomarino classe Scorpene: alimentati col sistema tradizionale a batterie che ne limita l’autonomia in immersione. “I francesi hanno tirato un pacco agli australiani”: è un giudizio declinato in tutte le sue possibili varianti tecniche e pittoresche dagli esperti del Cesmar. “I sommergibili che il governo australiano aveva commissionato ai francesi dovevano limitarsi a pattugliare i choke points, i ‘punti di strozzatura’ strategici per i trasporti marittimi, che separano l’Australia dall’Oceano indiano, l’arcipelago indonesiano e il Mar cinese meridionale”, dice Francesco Zampieri, docente di Strategia e Storia militare. “I cinesi stanno espandendosi verso sud-ovest, l’area di scontro è possibile a sud dell’Indonesia”, conferma l’ammiraglio Cosentino riferendosi al controllo delle rotte tra Oceano indiano e Pacifico occidentale. L’Australia stessa può essere definita un unico, immenso choke point, data la sua peculiarità geografica di continente tra due oceani, ma abbastanza lontano dalla Cina in caso di conflitti.
La Cina, però, potrebbe essere più vicina. “I leader della Repubblica popolare cinese stanno lavorando alla costruzione di una flotta che possa affermarsi come potenza marittima globale”, dice Cosentino. “Il loro obiettivo è di espandersi nel Pacifico orientale, verso le coste dell’America latina”. Ben oltre da quello che definiscono il loro “territorio nazionale blu”. Ecco spiegata la scelta finale. “È stata di tipo politico, una scelta di campo nel momento in cui gli Stati Uniti chiamano a raccolta gli alleati locali”, spiega Zampieri. Comprando battelli nucleari, inoltre, la capacità di proiezione aumenta in modo esponenziale, tanto più elevata dai missili da crociera statunitensi Tomahawk IV a lungo raggio, pur “non armati con testate nucleari”. In questa prospettiva lo stesso concetto di Indo-Pacifico appare superato. Era inevitabile, data la vastità stessa di quello scenario che comprende circa metà della superficie del pianeta. “E’ un concetto più che una definizione geografica”, dice Zampieri.
Il ruolo centrale della Gran Bretagna post-Brexit nell’Aukus vi aggiunge ineluttabilmente l’oceano Atlantico e implica un completo ripensamento dei confini e delle dinamiche della politica globale. E’ una proiezione che rende molto attuale, se non addirittura preveggente, il concetto, troppo spesso sottovalutato o equivocato, di “Mediterraneo allargato”. “L’Aukus ha generato questo tipo di effetto farfalla. Ciò che accade nel Pacifico occidentale potrebbe determinare una nuova fase geopolitica nel Mediterraneo orientale”, dice l’Ammiraglio Domini riferendosi agli accordi tra Francia e Grecia nell’ambito di un patto di mutua difesa antiturco. “L’Italia è al centro del Mediterraneo e il Mediterraneo non può più considerarsi un mare ‘chiuso’. E’ uno dei tanti teatri marini interconnessi. Ecco perché il Mediterraneo allargato finisce col fondersi con l’Indo-Pacifico”, dice Cosentino. La sua, come per molti altri specialisti italiani, non è una rivendicazione nazionalistica. E’ invece la constatazione di un nuovo livello di complessità, di quel multilateralismo evocato al G20 in versione strategica.
L’Aukus, infatti, ha rimescolato alleanze e schieramenti, delineando uno scenario ben sintetizzato in un articolo del South China Morning Post. “Con l’alleanza Aukus, gli Stati Uniti si allontanano dall’Europa e avvicinano la Cina alla Russia e all’Iran. Washington ha dato la priorità all’Anglosfera e ha ignorato gli sforzi dei suoi alleati europei, creando spaccature nella sua rete di alleanze. Cina e Russia hanno risposto intensificando la loro collaborazione e portando l’Iran nella Shanghai Cooperation Organization”. Collaborazione che si è prepotentemente manifestata nelle prime manovre navali congiunte tra Russia e Cina che si sono svolte nel Mar del Giappone. Nel frattempo, la marina cinese ha condotto un numero record di “uscite” nello stretto di Taiwan. E l’Iran ha ribadito la sua intenzione di iniziare un programma navale di battelli a propulsione nucleare.
L’Aukus ha infastidito anche l’altra grande potenza asiatica, l’India. In quanto stato membro del Quadrilateral Security Dialogue (il Quad), che comprende anche Australia, America e Giappone, si è sentita esclusa da un accordo che prevede la condivisione di tecnologie nucleari. Il Giappone, invece, ha accolto l’Aukus come ulteriore garanzia di pace nella regione, ma ha anche manifestato l’intenzione di varare i propri sottomarini nucleari. Le nazioni dell’Asean hanno reagito in modo diverso. Indonesia e Malaysia hanno criticato l’accordo come destabilizzante anche perché hanno sempre considerato la “vicina” Australia come il vicesceriffo degli Stati Uniti nell’area. Singapore e Vietnam, che temono di più l’espansionismo cinese, hanno accolto meglio l’Aukus ma senza dichiarazioni ufficiali. Per tutti i paesi del sud-est asiatico, comunque, resta ferma l’adesione al trattato della Southeast Asia Nuclear Weapon-Free Zone e tutti hanno interpretato l’Aukus come un modo, un po’ maldestro, di manifestare la presenza americana nella regione dopo la débâcle afghana. La Corea del nord ha risposto alla sua maniera: lanciando un missile. Solo che in questo caso si trattava di un missile balistico lanciato da un sottomarino. Il sottomarino era di tipo convenzionale e anche poco sofisticato. In realtà non si è nemmeno certi si trattasse di un sottomarino o una base subacquea. Ma quel missile può essere armato con testate nucleari. In compenso sembra più probabile che sia preceduta dalla Corea del sud nella costruzione di un sottomarino nucleare che potrebbe stroncare sul nascere possibili lanci da un avversario molto meno evoluto.
Sul fronte occidentale, l’Aukus ha paradossalmente rafforzato la posizione francese come forza motrice di una strategia europea nell’Indo-Pacifico, un’idea fortemente sostenuta dal presidente Macron. “La Francia vorrebbe riconquistare un ruolo sulla scena globale e di sicuro sarebbe auspicabile una presenza europea più forte”, dice Nicola Cristadoro, esperto di intelligence. “Personalmente mi sembra un’utopia, considerando com’è difficile realizzare un’intelligence europea. Ma l’idea di un’alleanza tra pari, diversa dalla Nato, è affascinante”.
Altrettanto affascinanti si rivelano le implicazioni delle nuove tecnologie nella guerra ibrida, quella che l’ex comandante della Nato Philip Breedlove ha definito una forma di conflitto in cui la narrazione e gli annessi strumenti di comunicazione sono ancor più̀ decisivi dei mezzi militari. In questo mondo in cui ci si muove “come pesci d’acqua profonda” – comportamento che Cristadoro attribuisce agli uomini dell’intelligence cinese – ecco che emergono interessanti coincidenze. Anche in questa storia. Solo che è stata scritta in un articolo del Foglio sulla guerra sottomarina in Asia di qualche anno fa: “I sottomarini potrebbero rimpiazzare le portaerei quali ammiraglie della potenza d’attacco. Tanto più come base di lancio di Autonomous Underwater Vehicles (Auv) i droni subacquei che raddoppierebbero le possibilità d’azione e la potenza letale del sottomarino. Ma così si moltiplica i rischi d’incidenti determinati da ‘incontri inaspettati’ tra sottomarini o navi antisom, senza contare quelli tra e con Auv”.
Poche settimane dopo l’Aukus, quella “profezia” pare si sia realizzata, quando il “Connecticut”, un sottomarino nucleare statunitense classe Seawolf, solitamente impiegato per missioni di sorveglianza e spionaggio, è entrato in collisione con un “oggetto sconosciuto” nel Mar cinese meridionale.
“Un drone? Potrebbe anche essere. L’ho chiesto a un collega americano. Non mi ha risposto”, dice una delle fonti di questa storia. Una reticenza che potrebbe confermare il sospetto che la collisione sia avvenuta con un drone lanciato dallo stesso “Connecticut”. E che sembra confermata dai commenti ironici dei cinesi secondo cui il battello si trovava dove non avrebbe dovuto e gli Stati Uniti stanno intenzionalmente nascondendo qualcosa: “uno stupido errore”. Il primo rapporto rilasciato dal comando della VII flotta statunitense afferma che la Connecticut avrebbe urtato contro una montagna sottomarina. E anche questo è indiscutibilmente uno “stupido errore”.
Ancora una volta la realtà emula o ispira la fiction. Ma quest’ultima si spinge sempre oltre. Come accade in “2034: il romanzo della prossima guerra mondiale”, uscito in Italia per Sem il 28 ottobre scorso. In quell’anno, per una serie di episodi che sfuggono al controllo delle grandi potenze e che si svolgono nel Pacifico, si arriva a uno scontro che non avrà vincitori. Il romanzo è inquietante anche per il curriculum dei due autori: uno è Elliot Ackerman, ex marine, saggista e romanziere, l’altro è James Stavridis, ammiraglio in congedo che ha comandato flotte di cacciatorpediniere, il gruppo di battaglia di una portaerei e il Comando sud degli Stati Uniti prima di prestare servizio come comandante supremo delle Forze alleate della Nato dal 2009 al 2013. “È uno che sa quello che scrive, che queste storie le conosce bene, molto bene”, dicono tutti gli esperti. Che però spostano più avanti lo scontro: al 2049, centenario della proclamazione della Repubblica popolare cinese, anno in cui il governo di Pechino vorrebbe che Taiwan tornasse a far parte della “madrepatria”.