In Libano
Il portavoce delle vittime del disastro di Beirut ci spiega perché molla il giudice eroe
"Mi ha detto di sapere chi è responsabile dell’esplosione ma anche che ora non può dire tutto quello che ha scoperto. Continuerò a cercare la verità, ma lo farò a modo mio", dice Ibrahim Hoteit
Dopo l’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020 che ha ucciso più di duecento persone, le famiglie delle vittime si sono strette intorno a un portavoce, Ibrahim Hoteit, e al giudice che guida l’inchiesta: prima Fadi Sawad e poi da febbraio Tarek Bitar. Quest’ultimo ha convocato esponenti del governo e alti funzionari statali e dell’esercito per accertarne le responsabilità ed è diventato l’uomo simbolo del Libano in conflitto con un sistema politico corrotto e impunito. L’obiettivo delle famiglie era lasciare procedere l’indagine senza interferenze di tipo settario, così comuni nel paese. Due giorni dopo gli scontri del quartiere Tayouneh a Beirut dello scorso 14 ottobre tra Hezbollah e milizie cristiane, il portavoce Hoteit è però apparso in un filmato – secondo molti impaurito e sotto minaccia – mentre revocava il suo sostegno al giudice. Raggiunto al telefono, ha spiegato al Foglio: “Non ho più fiducia in Tarek Bitar, ha permesso che gli scontri di Tayouneh accadessero, mi ha detto di sapere chi è responsabile dell’esplosione ma anche che ora non può dire tutto quello che ha scoperto. Continuerò a cercare la verità, ma lo farò a modo mio”.
Da quel momento, anche il gruppo delle famiglie delle vittime si è scisso: da una parte cristiani e sunniti che continuano a sostenere Bitar e la sua indipendenza, dall’altra gli sciiti che restano con Hoteit e continuano a chiedere che le indagini siano affidate a un nuovo giudice. In pratica si è ricreato lo schema che divide il paese. “La radice del problema in Libano è il sistema confessionale, uno stato fatto di minoranze che dipendono da potenze straniere che le appoggiano. È un fallimento che ha anche determinato l’impossibilità di creare una comunità politica. Parliamo sempre di riforme, ma non le facciamo mai perché presuppongono un accordo tra le parti, ecco perché noi non siamo capaci di governarci”, spiega il professore di Scienze politiche dell’American University of Beirut, Hilal Kashan. Negli ultimi mesi Tarek Bitar ha spiccato mandati di arresto nei confronti dell’ex ministro delle Finanze Ali Hasan Khalil, dell’ex ministro dei Lavori pubblici Ghazi Zeaiter e dell’ex ministro dell’Interno Nouhad Machnouk. Soprattutto, ha chiesto all’ex primo ministro Hassan Diab di presentarsi all’interrogatorio, senza successo. L’ultimo tentativo è stato giovedì scorso. Prima Diab aveva evitato gli interrogatori grazie all’immunità parlamentare di cui godeva come primo ministro ad interim fino alla formazione del nuovo governo, poi con un volo negli Stati Uniti per fare visita ai suoi figli e ora con un ricorso legale per mettere in dubbio l’indipendenza del giudice.
L’indagine di Bitar non è l’unica cosa a essere sospesa. Dal martedì che ha preceduto gli scontri di Tayouneh – dove sono morte sette persone – il ministro della Cultura Mohammed Wassam al Murtada, anch’egli giudice e sponsorizzato da Hezbollah e Amal, ha fatto sapere al primo ministro Najib Mikati e al presidente Michel Aoun che non avrebbe partecipato a nessuna riunione del governo fino a quando Bitar fosse rimasto nell’esercizio delle sue funzioni. Nel suo ufficio di Beirut il ministro ha spiegato al Foglio: “Bitar obbedisce a un piano straniero per provocare uno scontro nel paese, non per arrivare alla verità. Quel giudice va rimosso, deve essere il primo pensiero per tutti, non importa quanto siano importanti le altre cose, questa ha la precedenza”. Il ministro pensa che qualcosa potrebbe succedere e avere un impatto sulle prossime elezioni previste per il 27 marzo? Risponde che dopo i morti di Tayouneh i sunniti si sono stretti intorno ai sunniti, i cristiani intorno ai cristiani e gli sciiti intorno agli sciiti e questo ha diviso le persone.