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Molti attacchi, un solo disegno che viene dell'Iran

Daniele Raineri

Due droni esplosivi contro il primo ministro dell’Iraq sono l’ultima di una serie di operazioni delle milizie create dall’Iran. Vietato unire i puntini però, perché si aspetta la ripresa dei negoziati atomici a Vienna  

E’ un mistero della politica internazionale, ma come vedremo c’è una spiegazione. C’è una sconnessione tra una serie di fatti gravi e spettacolari che accadono in medio oriente e l’attenzione mondiale. L’Iran e le milizie filo iraniane lanciano operazioni militari aggressive all’estero senza interruzioni e questa cosa sfugge al radar dell’opinione pubblica e alla comunità internazionale – non rilevano, è come se quelle notizie riguardassero una realtà alternativa che non ci interessa. O forse si è raggiunto un punto di saturazione oltre il quale le notizie perdono di significato. Nelle ultime due settimane l’Iran e le milizie filo iraniane hanno tentato di assassinare il primo ministro dell’Iraq con droni esplosivi, hanno sequestrato una petroliera vietnamita in navigazione nel Golfo, hanno attaccato una base militare che ospita duecento marines americani al confine tra Siria e Giordania, hanno colpito con una bomba un aeroporto civile nel sud dell’Arabia Saudita e hanno portato avanti la campagna di intimidazione per rimuovere in Libano il giudice che indaga sul disastro del porto di Beirut. E questo è soltanto un campione inferiore alle due settimane, da mercoledì 20 ottobre a oggi, perché se si allargasse lo zoom potremmo osservare la stessa frequenza nella cadenza degli attacchi e anche la medesima mancanza di interesse. Spesso si tratta di operazioni che si si inseriscono in scontri e guerre locali, ma non ci sono possibilità di equivoci: le milizie che ne sono responsabili fanno tutte capo all’Iran, ne servono gli interessi in politica estera e ne ricevono armi, finanziamenti e istruzioni. A volte, come vedremo, le milizie fanno cose che non sono state ordinate dall’Iran ma il dato di fondo è che senza l’Iran non esisterebbero. 

Domenica dopo mezzanotte un’operazione in Iraq ha superato la soglia labile dell’attenzione. Le milizie filo iraniane dell’Iraq hanno attaccato con due droni esplosivi la casa del primo ministro iracheno, Mustafa al Khadimi, nella Zona verde, con l’intento di ucciderlo. Il rumore delle raffiche di mitra delle guardie del corpo contro i droni ha riempito la notte di Baghdad ed è finito sui social, si è cominciato a parlare di un golpe contro Al Khadimi, la Nona divisione corazzata ha annunciato l’attacco contro il leader più importante del paese con un comunicato ufficiale e in strada sono scesi i mezzi per il trasporto truppe dell’esercito, che in gran parte è schierato dalla parte del primo ministro e contro le milizie. I droni delle milizie possono portare fino a trenta chilogrammi di esplosivo, in questo caso i chili di esplosivo erano meno ma tanto per farsi un’idea della pericolosità del piano originale: è come se un cannone sparasse due colpi contro una villa. 


L’attacco non è arrivato dal nulla, da giorni due milizie filo iraniane stavano protestando contro il primo ministro dell’Iraq perché sentono il loro potere politico affievolirsi dopo le ultime elezioni – che per i partiti legati alle milizie filo iraniane sono andate molto male. Per riconquistare il potere perso ai seggi, come sempre, le milizie hanno fatto ricorso alla violenza, in particolare due che si chiamano Asaib Ahl al Haq e Kataib Hezbollah, la Lega dei giusti e la Brigata del Partito di Dio (sì, quasi come l’altra milizia filo iraniana in Libano: il modello è quello). Le due milizie hanno inscenato proteste nella Zona verde nella speranza di destabilizzare la situazione e il capo di una di esse, c’è stato un morto, il temuto leader Qais al Khazali ha minacciato il primo ministro: “La responsabilità di questo sangue è tua, non abbiamo ancora finito di vendicare la morte di Qassem Suleimani” (il generale iraniano che ha creato queste milizie). Due giorni dopo è arrivato l’attacco con i droni. Non è la prima volta che le milizie usano la forza con il primo ministro. Alla fine di maggio avevano assediato la sua casa fino a quando lui non aveva acconsentito alla liberazione di un altro leader – di rango inferiore. A marzo un altro drone, ma questa volta senza esplosivo, si era schiantato contro la stessa casa presa di mira domenica notte – un avvertimento chiaro no? 

 


 

I droni dell’attacco di domenica erano quadricotteri – con quattro eliche. E’ roba per operazioni in città che può essere trasportata nel bagagliaio di un’automobile e lanciata da un terrazzo, diversa dai droni alati che hanno bisogno di piste per decollare e volano ad alta quota per migliaia di chilometri. Sono vecchie conoscenze perché provengono dalla stessa officina irachena che in questi ultimi due anni ha prodotto i droni usati dalle milizie in altri attacchi contro bersagli meno ambiziosi. L’idea è semplice: un drone con una bomba attaccata sotto che vola verso l’obiettivo, lo colpisce e la bomba esplode al contatto. Sono quadricotteri di produzione commerciale modificati da ingegneri che sanno dove mettere le mani e però lasciano tracce dei loro interventi: l’alloggiamento che contiene la batteria prodotto con una stampante 3D, il sistema di telemetria, la disposizione dei cavi, il sistema costoso per gestire la carica della batteria che è essenziale perché decide il raggio d’azione del drone fanno pensare a una stessa squadra, come hanno scritto tre analisti (Smith, Malik e Knights del Washington Institute) subito dopo avere visto le foto. Anche le bombe portate sotto la pancia del drone erano dello stesso tipo usate in altre operazioni e lo sappiamo grazie ad alcuni colpi di fortuna. Uno dei due quadricotteri ha fallito l’attacco contro il primo ministro perché la bomba non è esplosa, un altro quadricottero uguale era stato trovato su un tetto di Baghdad a luglio 2020 dall’altra parte del fiume Tigri rispetto all’ambasciata americana – un caso di operazione fallita – e questo permette agli esperti di fare comparazioni. A luglio di quest’anno un altro drone dello stesso tipo si era schiantato nella capitale irachena e un secondo era stato abbattuto dagli americani. Ma se questi droni finiscono per cadere a terra così spesso perché le milizie li usano? Perché a differenza dei razzi e di altri ordigni sono difficili da intercettare, non seguono traiettorie regolari, possono volare attorno a un muro, nascondersi a mezz’aria dietro un albero e poi tentare di infilarsi in una finestra – cose che proiettili di mortai e razzi non fanno. All’alba di domenica l’esercito iracheno ha criticato gli americani perché non sono intervenuti con le loro difese contraeree a difesa della villa del primo ministro, ma non potevano. Usano un sistema sofisticato formato da mitragliatrici pesanti collegate a radar e computer che legge di continuo il cielo attorno alle installazioni americane e reagisce in automatico alle intrusioni nel giro di centesimi di secondo. In caso di razzo in arrivo le mitragliatrici possono colpirlo quando è ancora alto e quindi la possibilità di danni collaterali è minima. Ma i droni volavano bassi e in questo caso il sistema dice alle mitragliatrici di non sparare, altrimenti c’è il rischio di colpire gli edifici sulla linea di tiro. Immaginarsi cosa succederebbe se gli americani in un raptus difensivo colpissero a caso balconi, facciate e finestre dentro e fuori alla Zona verde. 

Un altro particolare tecnico che conoscono gli addetti ai lavori: la bomba del drone conteneva un cono di rame, che in teoria al momento dell’esplosione si trasforma in un getto di metallo liquido velocissimo con una capacità aumentata di penetrazione. Durante l’insurrezione islamista di quindici anni fa contro le truppe americane in Iraq, i bombaroli dello Stato islamico usavano semplici bombe nascoste sotterrate ai lati delle strade ma l’entrata in guerra delle milizie filo iraniane fu annunciata dall’arrivo di queste bombe più avanzate che contenevano coni di rame. Il getto di metallo liquido era capace di forare la blindatura dei veicoli americani e fare danni enormi all’interno e fu in quel periodo che i mitraglieri – quelli che stanno in piedi dentro il blindato – presero l’abitudine di viaggiare con una gamba in avanti e l’altra indietro: così se una di quelle bombe nuove esplode al passaggio del veicolo e mi colpisce una gamba non colpisce l’altra, dicevano. In breve: ci sono molti elementi per ritenere che l’operazione sia stata compiuta dalle milizie menzionate.

Al Khadimi da tempo alludeva alla necessità di contenere il ruolo delle milizie e non era stato preso sul serio. Molti primi ministri iracheni dichiarano la stessa cosa e poi non fanno nulla, incassano i benefici dell’alleanza con gli americani – come l’esenzione dalle sanzioni contro l’Iran che permette agli iracheni di commerciare con gli iraniani nel settore energia – e chiudono un occhio con le milizie. Il risultato è una coabitazione ostile, l’equivalente politico di una casa dove il marito (le milizie) picchia la moglie (la politica irachena che accetta la situazione per paura). Nove volte su dieci è l’Iran che dice alle milizie quando e perché picchiare. In quest’ultimo caso è possibile che l’idea dell’attacco con i droni sia stata una mossa impulsiva locale, perché è stata stupida e controproducente. Le milizie stanno perdendo legittimità agli occhi dell’iracheno medio, un attentato fallito contro il primo ministro peggiora la situazione invece di migliorarla. Per provare a salvare la faccia sui loro canali ufficiali hanno parlato di un non meglio specificato complotto per gettare una cattiva luce su di loro. Del resto nessuno rivendica mai un attentato fallito. Anche l’Iran ha adottato la stessa linea e ha condannato l’attacco. 

Il capo del reparto Gerusalemme (al Quds) delle Guardie della rivoluzione iraniana, il generale Ismail Qaani, successore di Qassem Suleimani, domenica è atterrato d’urgenza a Baghdad per rassicurare il primo ministro al Khadimi e per parlare in incontri riservati con i capi delle milizie. Aveva fatto la stessa cosa domenica 10 ottobre, giorno delle ultime elezioni in Iraq, quelle che hanno sancito un indebolimento traumatico dei partiti legati alle milizie filo iraniane. E’ possibile che in quell’occasione Qaani stesse provando a negoziare con i partiti vincitori una qualche forma di alleanza a favore delle milizie, ma se è così non aveva funzionato. L’arrivo in fretta e furia del generale iraniano a Baghdad una volta al mese illustra come meglio non si potrebbe il problema.

Questo omicidio mirato andato male – per chi l’ha ordinato – in Iraq è soltanto una frazione delle attività delle milizie nella regione. All’inizio di ottobre le fazioni filo iraniane libanesi sono state al centro di scontri a fuoco a Beirut che sono iniziati mentre tentavano un’operazione intimidatoria contro l'inchiesta del giudice Tarek Bitar – a capo delle indagini sull’esplosione al porto nell’agosto 2020. La campagna viene considerata una bega locale che devono risolversi i libanesi – ennesimo caso di mimetismo locale di un’interferenza esterna.

 

Il 25 ottobre le Guardie della rivoluzione hanno accostato una petroliera vietnamita in transito nello Stretto di Hormuz e l’hanno costretta ad attraccare in Iran, sotto il naso di due incrociatori americani che non hanno mosso un dito – ma hanno denunciato le manovre di disturbo attorno a loro dei barchini e dei droni (anche qui) dell’Iran. Un canale tv di stato dell’Iran pochi giorni dopo ha mandato in onda un video dal quale sembrava che gli incrociatori americani avessero dirottato la petroliera e le Guardie della rivoluzione fossero intervenute a “salvarla”. Musica trionfale, toni marziali. Il portavoce del Pentagono, John Kirby, ha smentito in conferenza stampa e ha fatto un commento molto interessante: ha detto che data l’attuale situazione diplomatica non c’è l’interesse, da parte americana, a dare particolare risalto a qualsiasi cosa accada in mare. E’ un segnale di cosa sta succedendo in queste settimane fra occidente, Iran e comunità internazionale. La voglia di ritornare ai negoziati di Vienna sul nucleare è tale da coprire tutto il resto e garantire l’impunità pratica su quasi qualsiasi altro dossier. Un nuovo accordo sul programma atomico dell’Iran è la cosa importante: il resto viene dopo, ha priorità minore, può aspettare. Le differenti operazioni dell’Iran in medio oriente, dall’attacco alla base americana in Siria alle altre citate, devono restare in secondo piano. C’è una universale volontà di minimizzazione quando si parla di cose iraniane e affini in questo momento perché si teme che altrimenti si potrebbe scivolare verso una crisi peggiore dello status quo attuale. E questo sentimento è talmente condiviso che dopo l’attacco esplosivo contro casa sua persino il primo ministro iracheno, Mustafa al Khadimi, ha dichiarato di essere illeso, pur con una vistosa fasciatura al braccio sinistro.
 

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)