La nuova Birmania dei militari condanna un giornalista americano
Il processo di democratizzazione è definitivamente fallito. I generali del golpe hanno vinto, anche per colpa nostra
Forse Danny Fenster, 37 anni, è stato condannato anche perché non si è assistito a una mobilitazione mondiale per la Birmania com’era accaduto per denunciare Aung San Suu Kyi, accusata di non essersi battuta per difendere i rohingya, l’etnia musulmana da sempre oggetto di persecuzione
La redazione di Frontier Magazine era in una nuova palazzina del centro di Yangon. Ogni tanto il caporedattore Danny Fenster, 37 anni, cittadino statunitense, andava a lavorare in uno dei nuovi locali della zona. Frontier era un giornale di tendenza. I suoi reportage di politica, viaggio, cultura erano letti in tutto il sud-est asiatico. Danny era uno dei giovani espatriati che animavano la scena della città nel nuovo clima di libertà.
L’11 novembre Danny è stato condannato a 11 anni di carcere per incitamento alla ribellione e per contatti con esponenti dei gruppi che si oppongono alla giunta militare guidata dal generale Min Aung Hlaing, quella che il 1° febbraio scorso ha preso il potere con la forza. Da quella data ogni sogno di libertà è andato in frantumi. Aung San Suu Kyi e i leader democraticamente eletti sono stati arrestati. Più di un migliaio di oppositori, soprattutto giovani, sono stati massacrati. Circa diecimila sono detenuti nella prigione di Insein, alla periferia di Yangon. Quel luogo infame in cui erano stati detenuti e torturati altre migliaia di donne, uomini, ragazze e ragazzi che negli ultimi trent’anni si erano opposti alle dittature, sembrava destinato a divenire una sorta di museo dell’orrore, di luogo della memoria. Tanto che ci si poteva avvicinare, gli aerei di linea lo sorvolavano. Negli ultimi anni, durante il governo della National League for Democracy di Aung San Suu Kyi, i prigionieri politici si erano ridotti a poche centinaia, detenuti in condizioni umane. Non era ancora la democrazia come quella cui siamo ormai “assuefatti” in occidente. Ma era un gigantesco passo avanti.
Dal primo febbraio, le celle si sono nuovamente riempite, molti detenuti ci sono morti e il covid è spesso servito a “giustificare” la loro sorte. E’ a Insein che Danny è stato portato il 24 maggio scorso: arrestato al Yangon International Airport non è riuscito a imbarcarsi sul volo che lo avrebbe riportato in America. Quel momento che negli anni delle precedenti dittature era il più temuto dai giornalisti che cercavano di documentarne i crimini.
Danny è il primo giornalista “straniero” a essere condannato con una sentenza che è la più dura possibile. Ma non basta: rischia altri vent’anni e altri venti ancora se sarà giudicato colpevole di sedizione e terrorismo. Tutto per aver fatto il suo lavoro di giornalista: a Frontier dal maggio del 2020 e, prima ancora, a Myanmar Now, in prima linea contro i militari. Un tale accanimento si può comprendere solo nella mentalità psicopatica dei militari birmani. Forse vuole essere un segno di forza rivolta agli oppositori. Come se non bastassero i bombardamenti dei villaggi dove si manifesta una rivolta.
Forse Danny è stato condannato anche perché non si è assistito a una mobilitazione mondiale com’era accaduto per denunciare Aung San Suu Kyi, accusata di non essersi battuta per difendere i rohingya, l’etnia musulmana da sempre oggetto di persecuzione. In realtà la Signora aveva cercato di non cadere nella trappola dei militari, veri responsabili dei crimini contro i rohingya. In compenso la delegittimazione internazionale di Suu Kyi è stata una delle condizioni che hanno favorito il golpe. E che consentono ai militari di tenerla agli arresti con una serie di assurde accuse che potrebbero concludersi con una condanna a decine d’anni. Com’è accaduto a Win Htein, uno dei suoi più stretti collaboratori, condannato a vent’anni.
È un’ironia della sorte, ma anche un’accusa alla coscienza dell’occidente che per riparlare della Birmania dopo mesi che era sparita dalle cronache si sia dovuto attendere la condanna di un giovane giornalista che amava scrivere in un caffè di Yangon.