Negli Stati Uniti l'ultima guerra culturale si consuma tra i banchi di scuola
I “diritti dei genitori” sono diventati rilevanti nelle scelte politiche degli elettori americani, perché nell’ultimo anno la scuola si è trasformata. Ignorare questo fatto è pericoloso soprattutto per i democratici
L’ultimo post che Glenn Youngkin ha condiviso sul suo sito prima di vincere l’elezione per diventare governatore della Virginia era un elenco di 15 presunte “bugie” raccontate dal suo avversario, il democratico Terry McAuliffe. Youngkin, nuovo governatore repubblicano di uno stato storicamente democratico, presentava le sue confutazioni focalizzate principalmente su una promessa fondamentale della sua campagna elettorale: far sì che i “genitori contino” nelle decisioni educative che riguardano i loro figli. Alcuni hanno liquidato questa strategia – che comprende discussioni meno controverse, come aumentare il salario degli insegnanti e proteggere la libertà di parola, e proclami per vietare la Critical Race Theory (la teoria che sostiene che gli Stati Uniti sono intrinsicamente razzisti) – come puramente simbolica. Barack Obama l’ha definita “fake outrage”, un’offesa falsa, fatta soltanto per aumentare gli ascolti; i commentatori hanno insistito sul fatto che questa rabbia fosse “insincera”, fosse un’“assurdità isterica” e una “guerra culturale creata ad arte”.
A dire il vero, invocare i difficili rapporti tra scuola e famiglia infiamma sempre gli elettori; è una strategia politica vecchia quasi quanto il moderno sistema scolastico. All’inizio degli anni Quaranta, la superpatriottica American Legion avvertì i genitori degli obiettivi “sinistri” di una serie di libri di testo molto utilizzata che si concentrava sui “problemi sociali” per fare il lavaggio del cervello ai bambini in modo che diventassero dei comunisti vendicativi. Negli anni Sessanta, gli oppositori all’educazione sessuale sostenevano che i corsi progettati da “umanisti laici” avrebbero messo i bambini contro i loro genitori e li avrebbero trasformati in manifestanti dai capelli lunghi in cerca soltanto del piacere. Soltanto pochi anni dopo, il nemico divenne un programma di studi sociali che, secondo i detrattori, minacciava di distruggere la devozione dei bambini per la patria e per la famiglia suggerendo che le culture non occidentali – o persino il regno animale – potessero offrire una visione alternativa della società americana. I colpevoli erano un gruppo consistente ma variegato di “educationist” descritti come incompetenti e maligni: burocrati superbi e pigri sindacalisti stipendiati dalle tasse finanziate dai contribuenti americani coesistevano con insegnanti complottisti e professori ideologizzati intenti a corrompere i bambini con idee di sinistra o con perversioni sessuali. Col senno di poi quelle ipotesi risultano eccessive.
Ma mentre è importante denunciare il razzismo, il sessismo e l’omofobia che guidano questo tipo di panico morale, è altrettanto importante capire perché hanno preso piede. Durante queste e innumerevoli altre “guerre nelle aule scolastiche”, inclusa la campagna elettorale in Virginia della scorsa settimana, le scuole diventano luoghi di controversie così profonde proprio perché riflettono trasformazioni sociali più ampie. Eventi sismici come la Grande Depressione, la guerra mondiale e la lotta per i diritti civili – o, oggi, la pandemia e una gran resa dei conti sulla disuguaglianza strutturale – cambiano l’esperienza dell’istruzione. Il disagio che ne deriva spinge le persone, in particolare i genitori, a credere a teorie stravaganti sulla natura di questi cambiamenti e su ciò che rappresentano, e a trattare le questioni curriculari come un modo concreto per esercitare il controllo su cambiamenti sociali e politici più ampi e spesso più inquietanti. Le questioni scolastiche, quindi, non sono una semplice cifra delle preoccupazioni “reali”: sono centrali nella cultura politica contemporanea, in Virginia e altrove.
Negli ultimi 18 mesi, la scuola si è trasformata, sia nella politica sia nei dettagli della pratica scolastica. Molte scuole sono state chiuse per mesi interi – la Virginia è al settimo posto per numero di giorni di presenza l’anno scorso negli stati americani – e poi riaperte solo in modo semi-funzionale, con attività extrascolastiche ridotte, insegnanti collegati da remoto e strani nuovi rituali come il pranzo in silenzio e la ricreazione con la mascherina. Alcune di queste stranezze derivavano da preoccupazioni pratiche sull’assembramento di grandi gruppi di bambini durante una pandemia. Altri cambiamenti derivano da una trasformazione filosofica in atto da molto tempo: l’ampio sforzo da parte degli educatori di rimediare alla disuguaglianza all’interno e al di fuori delle scuole. Solo nell’ultimo anno, New York City, il più grande sistema scolastico della nazione, ha iniziato a eliminare gradualmente i suoi programmi per studenti “dotati e talentuosi”, sostenendo che tale differenziazione esacerba le disparità. Alcuni stati hanno preso in considerazione il “de-tracking” dei curricula di matematica, sollevando preoccupazioni sul fatto che i distretti avrebbero ridotto i corsi accelerati. Le scuole superiori pubbliche selettive e le università statali hanno eliminato o ridotto l’importanza dei test standardizzati per l’ammissione. Dopo un anno in cui l’assenteismo è salito alle stelle e molti bambini hanno frequentato la scuola solo sporadicamente attraverso uno schermo, molti genitori si sono preoccupati che i loro figli potessero regredire nella loro istruzione. Ma un gruppo vociante di educatori e attivisti si è chiesto se la “perdita di apprendimento” esistesse davvero e se valutare i progressi accademici durante questo periodo fosse di per sé una forma di ingiustizia.
Questa enfasi sull’equità ha reso le pedagogie progressiste più solide in alcune scuole, manifestandosi in nuove usanze come la condivisione di pronomi di genere, la partecipazione a gruppi identitari e l’adozione di materiali didattici che discutono incessantemente del ruolo del razzismo nella società americana. Tali programmi educativi non sono iniziati durante la pandemia né dopo l’omicidio di George Floyd, ma quegli eventi hanno accelerato l’entusiasmo per la loro introduzione nelle scuole. La California è diventata il primo stato a rendere gli studi etnici un requisito per il diploma di scuola superiore, mentre in Pennsylvania gli studenti hanno combattuto con successo contro i genitori conservatori che cercavano di impedire l’uso di determinati testi in classe, tra cui “How to Be an Antiracist” di Ibram X. Kendi, così come un libro illustrato per bambini su Rosa Parks e un documentario su James Baldwin.
Da più di un anno gran parte di questo fermento curriculare avviene online e quindi nelle case delle famiglie, ipervisibili ai genitori che hanno un accesso maggiore alle classi dei figli. Inoltre, è probabile che le persone vedano questi problemi attraverso la lente dei media nazionali così come attraverso circostanze più immediate: clip virali di insegnanti che si comportano male o di risse nei consigli scolastici in stati lontani possono prefigurare ciò che potrebbe accadere nelle loro comunità o che potrebbe essere già in corso. I conservatori hanno abilmente sfruttato il disagio rispetto al mondo che cambia per trovare prove a sostegno della propria ideologia, definendo le scuole pubbliche in generale e gli educatori progressisti in particolare come nemici dei “valori familiari”. In effetti, gli exit poll della Virginia (con tutti gli avvertimenti che si applicano agli exit poll) riflettono la resistenza di questa strategia: la maggioranza degli elettori con figli sotto i 18 anni, e di coloro che credono che i genitori dovrebbero avere “molta” voce in capitolo nelle questioni curriculari, ha votato per Youngkin. Forse non sorprende che gli elettori bianchi senza un’istruzione universitaria abbiano votato in modo schiacciante a favore del repubblicano. Ma era meno prevedibile che le donne di quel gruppo, che si erano più equamente divise tra Donald Trump e Joe Biden nel 2020, questa volta favorissero così tanto il candidato del Gop.
Le scuole hanno molto, se non tutto, a che fare con questo. I democratici non fanno alcun favore a se stessi ignorando le preoccupazioni rispetto a un ambiente educativo molto cambiato, o respingendo chi fa domande liquidandoli come piagnucoloni (che “rivogliono solo le loro babysitter”) o come bulli ignoranti (che non sanno che la Critical Race Theory viene insegnata soltanto nelle università). In particolare, è nelle aree a prevalenza democratica che le scuole sono state chiuse per periodi più lunghi e dove sono state riaperte in versioni meno riconoscibili rispetto al passato. Queste aree sono anche quelle in cui la nuova pedagogia progressista ha avuto una trazione maggiore. La scuola pubblica si è trasformata negli ultimi 18 mesi e negarlo è un modo infallibile per alienare gli elettori e minare una delle istituzioni più importanti nella vita di molti americani.
(Natalia Mehlman Petrzela è professore associato di Storia alla New School e autrice di “Classroom Wars: Language, Sex, and the Making of Modern Political Culture”. Sta scrivendo un libro sulla cultura americana del fitness). Copyright Washington Post