Austin si ribella al woke
Nella città oggi più aperta d’America, un gruppo di intellettuali e imprenditori ha fondato un’università che si propone di garantire le libertà di studio e di espressione messe in crisi dal nuovo maccartismo
L’annuncio è arrivato tramite la newsletter di Bari Weiss “Common Sense”: un gruppo di intellettuali, artisti, giornalisti e imprenditori ha fondato ad Austin, in Texas, una nuova università che si propone di garantire quelle libertà di studio, di ricerca e di espressione che l’ondata di censura e di maccartismo ideologico woke ha messo radicalmente in crisi nell’accademia americana.
La situazione è in effetti piuttosto disperata: un quarto dei professori in scienze sociali e studi umanistici è favorevole al licenziamento dei colleghi che hanno opinioni “sbagliate” su temi come l’immigrazione e gli studi di genere (indifferentemente dalla loro competenza nelle materie d’insegnamento), oltre un terzo dei professori e dei ricercatori conservatori dicono di essere stati minacciati di sanzioni disciplinari per le loro opinioni, quattro dottorandi americani su cinque ritengono giusto discriminare gli insegnanti conservatori, dall’anno 2000 sono state 491 le campagne per disinvitare dai campus i relatori che risultavano sgraditi agli studenti woke, circa metà di questi boicottaggi ha avuto successo portando alla cancellazione dell’ospite.
Il quadro strutturale vede le università americane come delle grandi aziende che spendono parti crescenti dei loro budget in personale amministrativo e forniscono un prodotto – le lauree – che in molti casi ha perso il suo valore di mercato. La risposta dei rettori a questa situazione ostile agli studenti e alle loro prospettive occupazionali è stata nella quasi totalità dei casi l’accettazione succube di qualsiasi loro richiesta che non avesse a che fare con il senso ultimo (pratico e filosofico) della loro istruzione. Il risultato sono ambienti dove abbondano i “safe spaces”, l’uniformità ideologica, la protezione da qualsiasi cosa possa disturbare la bolla woke. Ambienti dove mancano occasioni di confronto e di ricerca non ideologica, per non parlare poi della possibilità di dibattere e studiare idee ritenute “pericolose”, o anche soltanto “controverse”, una parola-stigma quest’ultima che ormai indica idee di buon senso che sarebbero state perfettamente normali solo cinque anni fa ma oggi non rispondono all’ortodossia woke. In pratica si moltiplicano i dormitori, i complessi sportivi all’avanguardia, gli auditorium e le aree relax e si riduce la qualità dell’insegnamento, soprattutto viene evitata qualsiasi forma, anche blandissima, di confronto con l’altro o con il diverso, ovvero una parte centrale di qualsiasi serio percorso di crescita intellettuale.
Nel board di advisor della nascente università di Austin siedono personalità di spicco, oltre alla già citata Bari Weiss, ne fanno parte Steven Pinker, lo sceneggiatore e scrittore premio Pulitzer David Mamet, il giornalista Andrew Sullivan, la biologa evoluzionista Heather Heying, lo psicologo Jonathan Haidt, l’esperto di intelligenza artificiale del Mit Lex Fridman.
Ospite proprio al podcast di Fridman, Niall Ferguson, – uno dei fondatori della nuova università e autore di “Castrofi - Lezioni di storia per l’Occidente”, appena uscito in Italia per Mondadori – ha spiegato come il progetto nasca proprio dal riconoscimento che l’università come luogo di studio, di dibattito e di ricerca a-ideologica abbia avuto un ruolo centrale nella storia e nel funzionamento dell’Occidente mentre le dinamiche diffuse oggi nelle accademie americane ricordano per molti versi i meccanismi persecutori e di delazione delle dittature totalitarie. Ferguson ha ricordato anche come il passaggio intergenerazionale del sapere sia fondamentale: i giovani hanno la brillantezza mentale ma sanno necessariamente di meno; gli anziani invece hanno il sapere e l’esperienza ma sono alle prese con il declino cognitivo: se la cinghia di trasmissione si rompe il problema diventa enorme per tutti.
La nuova università opererà come una start up, partendo in piccolo con dei corsi estivi, a cui seguirà un corso per i leader del domani per poi arrivare nel giro di qualche anno ai corsi di laurea nelle discipline umanistiche. Secondo i fondatori l’intero modello, finanziamenti compresi, è da ripensare.
Non è un caso che l’università nasca ad Austin: la capitale del Texas sta emergendo negli ultimi anni come un polo intellettuale, creativo e imprenditoriale alternativo a New York e soprattutto alla California, una grande città di provincia dove progressisti e conservatori sembrano ancora capaci di dialogare e di confrontarsi. Austin è nota come la città liberal all’interno del Texas conservatore ed è da anni sede di alcune importanti aziende tech, ha un festival famoso in tutto il mondo – Il South by South West –, una scena musicale viva e sproporzionata rispetto alla grandezza della città e una scena comica in continua crescita.
Lo stand up comedian Joe Rogan poco dopo aver firmato l’accordo da 100 milioni di dollari con Spotify per il suo podcast si è trasferito in città. Grazie al suo show registrato in casa, Rogan ha ormai un’audience più ampia di quella della maggior parte dei canali televisivi e proprio nel podcast ha incominciato a fare insistentemente propaganda con amici e colleghi dello star system perché abbandonino la California a favore della città texana. In molti stanno seguendo il suo consiglio, soprattutto fra i comici. Fra i vantaggi di Austin ci sono una fiscalità meno aggressiva, una maggior vivibilità, livelli di traffico nettamente inferiori a quelli della congestionata capitale californiana e nessuna emergenza homeless, al contrario di quello che accade a Los Angeles dove il problema dei senzatetto che dormono in strada riguarda ormai interi quartieri. Rogan ha dedicato a questo tema alcune puntate del suo show denunciando uno schema sul genere “forestali che bruciano gli alberi per mantenere il posto di lavoro”.
Ambasciatore di Austin nel mondo è però, da ben prima di Rogan, Matthew McConaughey, l’attore nativo della provincia texana racconta così nel suo libro “Green lights” (Baldini+Castoldi) il suo primo approccio alla città come gli venne descritta dal fratello maggiore: “Ti piacerà da matti, è proprio la tua città. Puoi andare ovunque in infradito, entrare in un bar gestito da un nano e avere a destra un cowboy, a sinistra una lesbica e di fronte un indiano. Lì puoi davvero essere soltanto te stesso”. In effetti la città gli piacque, tanto che l’attore la elesse a secondo domicilio dopo la sua roulotte ultra accessoriata con cui girava l’America fra un film e l’altro. Ad Austin, McConaughey venne anche arrestato quando alle due e mezza di notte, dopo aver passato due giorni a festeggiare senza mai dormire una vittoria della squadra di football universitario, decise di uscire nel giardino della sua casa nel quartiere Tarrytown, alzare lo stereo a palla,e mettersi a suonare dei bonghi. Al suo arrivo la polizia trovò oltre ai bonghi anche un bong e della marijuana, McConaughey provò a fuggire nudo per il quartiere ma fu arrestato. Il giorno seguente venne rilasciato con tante scuse da parte del giudice, sanzione complessiva: 50 dollari per la musica troppo alta. Anche questa è Austin.
In città vive da tempi non sospetti anche Lawrence Wright, scrittore e firma del New Yorker, autore del libro sull’11 settembre “Le altissime torri” e di “La prigione della fede” un’inchiesta su Scientology, entrambi titoli che sono diventati poi delle serie tv e in Italia sono tradotti da Adelphi. NR invece ha pubblicato il suo “Dio salvi il Texas”, un lungo viaggio nello stato più americano d’America, stato di cui Wright ha parlato proprio con Rogan in una puntata del podcast lunga quasi tre ore e bellissima. Del Texas abbiamo in Europa quasi sempre un’idea stereotipata, ma se gli stereotipi talvolta si sbagliano, altre volte invece ci prendono in pieno e infatti sempre Rogan appena sbarcato a Austin è stato omaggiato di una copia della Costituzione americana, di una Colt e di un invito per andare in elicottero a sparare ai cinghiali selvatici (il controllo delle specie infestanti da quelle parti funziona così).
Sempre a proposito di animali, si stima che in Texas ci siano più tigri che in tutto il resto del pianeta, naturalmente tenute in cattività e molto spesso di proprietà di privati cittadini. Tempo fa il mondo si è interessato per un paio di settimane ai grandi felini in occasione dell’uscita su Netflix di “Tiger King”: quella storia non è ambienta in Texas ma rende bene l’idea del fenomeno. In tutto questo Austin, il puntino blu nel mare rosso del Texas, assomiglia a una città liberal come erano le città liberal dieci o quindici anni fa: posti creativi, scalmanati, aperti e molto più concentrati sul creare che sul perseguitare gli altri. Forse perché forzata a confrontarsi con il contesto conservatore o perché affezionata al valore texano della libertà di scelta, sta di fatto che Austin sembra resistere molto meglio al wokismo che affligge invece le grandi metropoli. Il mercato immobiliare della città di conseguenza cresce e l’immigrazione interna agli Stati Uniti la vede come una delle città più ricercate, siccome però tutto è sempre una questione di prospettive c’è anche chi denuncia la gentrificazione in atto e la crescente impossibilità per gli artisti di strada di continuare a vivere in città ora che ci sono sbarcati anche gli artisti di successo.
Da questo punto di vista la situazione non migliorerà certo con l’imminente arrivo in città del quartier generale di Tesla, dopo che Elon Musk ha deciso di spostarlo dalla California per motivi fiscali e politici. Musk ha anche aggiunto che gli piacerebbe fondare in città il Texas Institute of Technology & Science, università che avrebbe, ha detto l’imprenditore, del “merchandising epico”. L’acronimo dell’istituto verrebbe in effetti “T.i.t.s.” (tette). I media costieri hanno subito accusato Musk di misoginia, patriarcato e dei soliti altri due o tre concetti a cui riconducono meccanicamente ogni fenomeno umano. Ad Austin invece molte persone hanno riso e anche questo è uno dei motivi per cui qui convergono da tutta America gli anticorpi alla peste woke e la città è diventata forse l’unico hub fisico di quel fenomeno trasversale e digitale che è l’Intellectual Dark Web (IDW), il movimento intellettuale nato dal mondo dei podcast che unisce pensatori progressisti e conservatori ostili al wokismo.
L’immigrato a Austin è spesso un liberal con una certa passione per gli allucinogeni, la marjuana e la comicità, è interessato ai meccanismi evolutivi e alla scienza, economicamente è libertario, con una certa sfiducia nelle istituzioni e un’ostilità assoluta nei confronti dei media corporate, preferisce lo stato minimo a quello paternalista ma ha un ottimismo tutto americano nei confronti degli esseri umani, punta a soluzioni pratiche per problemi complessissimi e in genere è un grande lavoratore.
Austin oggi è uno strano connubio fra la vena psichedelica e innovativa della California dei tempi in cui lo stato costiero non era ancora diventato la caricatura di sé stesso e la dedizione e la determinazione quadrangolare tipica dei territori difficili e di frontiera. Un ibrido che per definizione si pone in equilibrio fra i mondi e risulta un luogo prezioso da cui osservare il nostro tempo storico iper-polarizzato. Che quella che si candida a diventare l’università del futuro metta le tende proprio qui, ha quindi perfettamente senso.