Materie prime e non solo
L'Iran è sotto sanzioni ma vende sempre più petrolio (alla Cina)
La scorsa primavera, il ministro degli Esteri cinese ha siglato un accordo con Teheran che prevede quattrocento miliardi di investimenti da parte della Repubblica popolare nei prossimi venticinque anni. In cambio, greggio iraniano a prezzo di saldo
La crisi delle materie prime e il rincaro del prezzo dell’energia è un problema per molti, per qualcun altro è un’opportunità. L’Iran è il quarto paese con più petrolio al mondo ma normalmente fa molta fatica a venderlo all’estero perché è sotto sanzioni americane. A meno che i paesi acquirenti non siano il Libano, la Siria o il Venezuela – che non godono proprio di ottima salute finanziaria e per la Repubblica islamica più che di occasioni per fare grandi affari si tratta di regali (nel caso dei barili destinati alla milizia libanese Hezbollah), di un baratto non troppo conveniente o di favori a buon rendere. Ma con la crisi delle materie prime anche paesi più ricchi e che hanno molto più da perdere accettano i rischi pur di ottenere un po’ di greggio a un buon prezzo. Uno su tutti è la Cina. La scorsa primavera il ministro degli Esteri Wang Yi è andato in visita a Teheran e ha siglato un accordo che prevede quattrocento miliardi di investimenti da parte della Repubblica popolare nei prossimi venticinque anni. In cambio sarebbero arrivati con cadenza regolare rifornimenti di petrolio iraniano a prezzi scontati. Finito il momento della propaganda sul “patto storico”, la questione era capire come sarebbe stato realmente implementato, visto che le imprese cinesi (per molte gli Stati Uniti rappresentano il primo partner commerciale) hanno paura di quel tipo di operazioni perché rischiano di vedere bloccati i conti nelle banche estere e di perdere i clienti americani.
Che l’accordo sarebbe rimasto solo sulla carta sembrava lo scenario più probabile, invece il petrolio iraniano ha cominciato a fluire a ritmo sostenuto verso i porti cinesi. È un terreno scivoloso perché non ci si può fidare né dei dati forniti dalla Cina né di quelli forniti dall’Iran, che tra l’altro sono molto diversi tra loro. Ufficialmente la Cina dice di non aver importato neanche un barile dalla Repubblica islamica nel 2021, mentre l’Iran si vanta di averne esportati tantissimi in Cina. Secondo la società Vortexa Analytics, che si occupa di ricerca e analisi dei dati nel settore dei combustibili fossili soprattutto per chi fa trading ma anche per testate come Bloomberg e il Financial Times, la Cina quest’anno sta comprando più del doppio del petrolio iraniano rispetto al 2020. In generale l’export di greggio sta fruttando un miliardo e trecento milioni di dollari al mese al governo iraniano e più della metà – secondo Vortexa – finisce proprio in Cina, che compra una media di seicentomila barili al mese. Ieri il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha detto: “All’inizio il mio governo ha avuto problemi con la vendita del petrolio, ma ora la situazione è davvero molto migliorata” – frase che in qualsiasi altro momento sarebbe suonata come propaganda, ma non in questo.
Il tema è talmente delicato e complesso che all’interno della stessa Repubblica islamica litigano sui dati delle loro esportazioni di petrolio, c’è stato uno scontro molto duro tra i Guardiani della Rivoluzione, cioè i pasdaran, e la Camera di commercio di Teheran in proposito. I primi dicono che la seconda sottostima di molto il volume dell’export verso la Cina (che, ripetiamolo, ufficialmente dice essere pari a zero) e la accusano di sabotare le relazioni tra i due paesi proprio in un momento in cui la Repubblica popolare si sta impegnando così tanto “nella neutralizzazione delle sanzioni petrolifere”. Gli analisti di Voxera sono riusciti a stimare la quantità di greggio iraniano arrivato in Cina non solo analizzando i movimenti delle petroliere e parlando con le proprie fonti, ma anche perché hanno notato che le raffinerie cinesi registrano dei margini di profitto che sarebbero incomprensibili se il petrolio arrivasse per esempio dal Sudamerica o dall’Arabia Saudita, mentre il petrolio iraniano costa poco proprio perché sanzionato. La verità è che – come ha ricordato di recente un’inchiesta di Bloomberg – il greggio iraniano è sempre “rebranded”, cioè passa dall’Oman ma si dichiara che la provenienza è il Brasile o l'Africa occidentale o l’Iraq. La pratica è nota e la stessa Eni ha rischiato più di una volta di acquistare petrolio iraniano spacciato per iracheno. Pochi mesi fa è venuto fuori che Piero Amara, l’ex avvocato esterno di Eni protagonista dell’ultimo scandalo della magistratura italiana con i suoi verbali sulla “Loggia Ungheria”, aveva provato a rifilare alcune tonnellate di petrolio sanzionato al colosso italiano dell’energia.