I ritratti
McCarthy e McConnell, i custodi del trumpismo
Le strade dei leader dei repubblicani al Congresso s’incrociano nel punto esatto in cui i conservatori privi di idee e di slancio aspettano, facendo calcoli, il ritorno del leader ombra Donald Trump
Nel sistema politico americano, quando un partito veniva sconfitto alle elezioni presidenziali, per un quadriennio circa rimaneva informalmente nelle mani dei due leader del Congresso. A lungo queste cariche non state codificate, ma c’era un referente informale, in genere il senatore più autorevole: per fare un esempio, prima della guerra civile, era il senatore Stephen Douglas a tenere le redini del partito. Se la speaker della Camera, Nancy Pelosi, e il capo del gruppo democratico al Senato, Chuck Schumer, hanno lasciato un partito sostanzialmente in salute a Joe Biden dopo il quadriennio trumpiano, pur con numerose debolezze da sanare, prima fra tutte la frattura sempre più ampia tra radicali e moderati, che dire dei loro corrispettivi repubblicani, Kevin McCarthy e Mitch McConnell?
Salta all’occhio velocemente una differenza: Pelosi e Schumer hanno custodito una macchina politica da consegnare al candidato migliore che sarebbe emerso dalle primarie 2020. Lo hanno fatto con Joe Biden, ma sarebbe stato uguale qualora avesse prevalso Bernie Sanders. McConnell e McCarthy, invece, lo custodiscono per il ritorno di Donald Trump. Pur non amandolo. Perché? È un mero calcolo elettorale per mantenere la base trumpiana e guidarla verso mete più ragionevoli? Questa debolezza ideologica viene da lontano. Né McCarthy né McConnell hanno mai avuto ambizioni presidenziali: il secondo lo mette bene in chiaro nella sua autobiografia pubblicata nel 2014 “The Long Game”. “A differenza di molti miei colleghi – scrive McConnell – che un giorno si vedevano già nello studio ovale, le mie ambizioni erano diverse. Io volevo essere il leader di maggioranza al Senato degli Stati Uniti”. Ci torneremo a breve, sulla storia umana di McConnell.
Intanto c’è la sua controparte Kevin McCarthy, quello in migliori rapporti con Donald Trump e che la settimana scorsa ha tentato di ritardare l’approvazione del piano bipartisan sulle infrastrutture dell’Amministrazione Biden parlando per otto ore e mezza, sfruttando un cavillo della Camera, che normalmente non ammette ostruzionismo, ma che concede al leader di uno dei due partiti tempo illimitato per il suo intervento. In altre epoche, Kevin McCarthy si sarebbe definito un politico “accidentale”. Non perché la sua carriera lo sia, anzi, è uno dei pochi deputati ad aver sempre lavorato in ambito politico, ma lo è indubbiamente la posizione che ricopre, non molto ambita a onor del vero per gli oneri richiesti. Eppure, McCarthy sembra a suo agio nel suo ruolo di “cucitore”, nonostante i mal di testa. Viene da una provincia peculiarissima, Bakersfield, la meno glam delle città californiane, che ha soltanto un cinema-teatro con il logo della Fox costruito negli anni Trenta come labile legame con l’immaginario cinematografico, ma è la capitale culturale degli “Okies”, quei migranti economici giunti dall’Oklahoma per lavorare nelle coltivazioni di frutta dominate dai padroni agrari della Central Valley ritratti in “Furore” di John Steinbeck, pubblicato nel 1939. Quello che Steinbeck non poteva sapere è che quei disperati, almeno in parte, si sarebbero fermati. Qualcuno sarebbe diventato democratico e favorevole alle radicali misure redistributive del New Deal.
Anche i genitori di McCarthy, pur non essendo Okies (il nonno paterno era di origine irlandese mentre quello paterno era italiano, giunto a Ellis Island nel 1921, cosa che ha ricordato durante la visita di Sergio Mattarella negli Stati Uniti nell’ottobre 2019), erano democratici. Il successo raggiunto e il conservatorismo culturale tipico del profondo sud furono il lievito che fece della maggioranza degli abitanti di Bakersfield e della contea di Kern, oggi a maggioranza ispanica, uno dei centri propulsori del conservatorismo californiano, sia negli anni dell’ascesa politica di Richard Nixon e di Ronald Reagan sia adesso che il partito è ridotto a un mozzicone rispetto agli anni gloriosi. Eppure, Kevin McCarthy ha fatto nel giro di relativamente pochi anni una silenziosa ascesa nelle fila repubblicane. Sempre dal lato perdente o quasi. Comincia nello staff del deputato repubblicano Bill Thomas dopo gli studi in marketing nel 1987, e ci rimane fino al 2002, quando viene eletto all’assemblea statale. Rimane in minoranza, fino all’anno successivo, quando diventa governatore con un voto di recall Arnold Schwarzenegger.
Tre anni più tardi fa il grande salto, proprio al posto del suo datore di lavoro: il portaborse divenuto deputato al Congresso. Proprio durante le elezioni di mid-term del 2006, quando i repubblicani vengono travolti in seguito all’indebolimento della presidenza Bush, rimasta bloccata nel pantano iracheno e nei primi segnali della crisi economica in arrivo. Forse anche per quello che nel 2009 viene scelto per un lavoro che nessuno vuole: il vice whip, colui che aiuta il leader ad assicurarsi che il gruppo politico rimanga compatto e voti secondo le indicazioni di John Boehner, che ha l’ingrato compito di contrastare l’agenda di un presidente come Barack Obama. Non è semplice, negli anni in cui il populismo del Tea Party scuote il partito: insieme al grande classico del “meno tasse” si percepisce in sottofondo un’ansia razziale e un risentimento della classe medio-alta bianca che favorirà l’ascesa dell’incarnazione politica di quegli impresentabili che in quegli anni, al massimo, potevano ambire al numero 2 del ticket con Sarah Palin. E saranno proprio i più radicali del Tea Party, riuniti nel Freedom Caucus, a stufare lo speaker di allora, John Boenher, tanto da indurlo alle dimissioni, il 29 ottobre 2015. McCarthy è nel frattempo diventato il suo numero due, dopo che Eric Cantor è stato inaspettatamente battuto alle primarie nel 2014 da un altro populista. Ma il Freedom Caucus, guidato dal futuro ultrà trumpiano Jim Jordan, ritira il suo sostegno. McCarthy rinuncia a occupare lo scranno di speaker, restando fermo al suo posto di majority leader.
Quando Trump diventa presidente, prima come secondo di Paul Ryan, poi come leader di minoranza, impara la lezione: mai scontentare gli estremisti. Anche per questo è diventato uno dei mastini del trumpismo: assecondando la grande bugia delle elezioni rubate dai democratici e allontanando Liz Cheney dalla leadership, nonostante fosse da sempre una delle deputate più conservatrici ed avendolo dimostrato anche recentemente, rifiutandosi di appoggiare il piano bipartisan di Joe Biden sulle infrastrutture. Secondo il Washington Post, McCarthy avrebbe confidato ai donatori di essere in grado di gestire le sfuriate trumpiane e di tenere a bada gli estremisti, come quando ha fatto una pubblica reprimenda del collega Paul Gosar, che ha postato su Twitter un video dove uccide in un’animazione Alexandria Ocasio-Cortez. Ordinaria amministrazione, in un gruppo dove gli estremisti sentono di avere l’appoggio del leader ombra di Mar-a-Lago, dove McCarthy si è recato alcune volte. A organizzare la campagna per il 2022, dice lui. A “baciare l’anello del boss”, secondo i critici, ormai sempre meno dentro al partito.
Uno di questi siede al Senato. E non ha mai voluto occupare il posto di Trump e di Biden, come abbiamo detto prima: Mitch McConnell, pur detestando Trump sin dal primo momento, non ha cambiato idea nemmeno dopo l’assalto al Campidoglio, dove pure poche ore prima aveva tenuto un appassionato discorso a difesa della democrazia che rischiava “di imboccare un circolo vizioso mortale”, se si fosse dato ascolto alle pretese trumpiane senza alcuna prova vidimata da un tribunale federale. Si potrebbe affermare che se McConnell non ha il coraggio, non se lo può dare. Sarebbe un’analisi superficiale. McConnell è innanzitutto un buon incassatore. Lo era sin da quando, a due anni, nel 1944, contrasse la poliomielite. La famiglia lo mandò al centro di Warm Springs, dove si curava anche il presidente Franklin Delano Roosevelt, per una costosa cura che quasi la mandò in bancarotta, ma Mitch si salvò dalla paralisi perenne. Dopo che nel 1956 si trasferì in Kentucky, McConnell affrontò i bulli alle scuole superiori. Per salvarsi iniziò a giocare a basket, che continuò anche al college. Diventa un repubblicano, ma non estremo.
Lo testimonia la sua presenza alla marcia per i diritti civili di Martin Luther King a Washington nel 1963, come studente di legge dell’università di Louisville. Lo ricorda nel sua autobiografia, quando parla di quello che in vari discorsi pubblici ha ricordato come “uno dei suoi argomenti preferiti di conversazione”, il senatore John Sherman Cooper, che gli disse il perché sosteneva l’integrazione degli afroamericani in uno stato dove la posizione era tutt’altro che popolare. La frase che ama citare è: “Ci sono momenti in cui bisogna seguire gli elettori. Altri in cui bisogna guidarli”. La cita spesso, ma non la segue molto. Basti vedere, negli anni, quante volte McConnell si è fatto fotografare con la bandiera confederata. E come si sia trasformato, da quando dirigeva la contea di Jefferson come “giudice capo” (carica che corrisponde all’incirca a un sindaco metropolitano italiano), gradualmente. Seguendo gli elettori. Negli anni Settanta guidava una coalizione politica di moderati tra borghesia bianca e afroamericani. La sua prima moglie, Sherrill Redmon, è una studiosa di gender studies e una femminista. Non disturba affatto McConnell tutto ciò: è un centrista e condivide la libertà di scelta in tema di aborto. Nella sua veste di dirigente cittadino, contratta volentieri con i sindacati dei dipendenti pubblici. In questi anni è normale: molti repubblicani sono più progressisti dei democratici conservatori del sud, che a loro volta spesso condividono le posizioni del partito avversario.
Il paese però, va in un’altra direzione. Sotto la cenere cova la rivoluzione reaganiana che inizia la progressiva polarizzazione del paese. McConnell viene eletto al Senato per la prima volta nel 1984 e deve incassare ancora una volta: quando, dal palco, il presidente Reagan lo chiama “il mio amico O’ Donnell”. Nel frattempo, ha lasciato Sherrill Redmon. Comincia a sterzare a destra e trova il suo campo d’interesse, avendo studiato legge: il controllo del sistema giudiziario. Capisce che se i repubblicani controllano le Corti, nemmeno le maggioranze democratiche più massicce potranno incidere più di tanto. E i loro provvedimenti resteranno lettera morta. Lentamente e con pazienza scala la leadership del Senato. Come McCarthy, diventa leader nel 2006, dovendo raccogliere i cocci. Negli anni di Obama realizza che collaborare non serve a nulla: perché favorire l’Amministrazione, se questa poi si prenderà tutti i meriti? Ma soprattutto: bisogna assolutamente impedire che Obama rinnovi le Corti. Inizia un palese ostruzionismo su tutte le nomine: dalle corti distrettuali fino alla Corte Suprema.
Fino alla rottura del febbraio 2016: muore all’improvviso il giudice Antonin Scalia, icona conservatrice, nominato da Ronald Reagan nel 1986. Bisogna impedire a qualunque costo che Obama nomini un rimpiazzo: è arrivato il momento, secondo la narrazione che propone ufficialmente, di essere un leader. E diventa il più grande ostruzionista di sempre: rifiuta di calendarizzare le audizioni per Merrick Garland, un equilibrato giudice federale scelto da Obama. Il presidente, ormai con la testa al dopo, non insiste più di tanto: è un errore fatale. Vince Donald Trump le elezioni del novembre 2016, che McConnell ha sostenuto controvoglia: è il partner perfetto per realizzare un controllo massiccio delle Corti. Cambia radicalmente atteggiamento. I candidati alla toga che prima venivano scrutinati meticolosamente ora vanno approvati come fossero “sul nastro trasportatore”. E non sempre sono adeguati: anche stavolta, McConnell incassa la cialtroneria trumpiana. Pure nell’anno del Covid, riesce a far approvare una sostituta conservatrice dell’icona progressista Ruth Bader Ginsburg, scomparsa di cancro nel settembre 2020. E pazienza se lo fa senza mai incontrare Trump, che sottovaluta la pandemia, mentre sotto le sue direttive il Senato diventa un modello di controllo del contagio, con obbligo di mascherina e distanziamento sociale.
Il distacco con Trump avviene quando i grandi elettori vidimano il risultato delle elezioni 2020: McConnell si congratula con il suo vecchio collega Joe Biden e con Kamala Harris il 15 dicembre. Poi l’assalto al Campidoglio. Infine, l’impeachment. McConnell cammina su un filo sottilissimo: pur ritenendo Trump politicamente e moralmente responsabile per i fatti del 6 gennaio, comunica ai suoi colleghi che voterà per l’assoluzione. Per voltare pagina, ufficialmente. In realtà per non aprire un conflitto con Trump, sfruttare i suoi voti e vincere nel 2022.
E qui si riuniscono le strade di McCarthy e di McConnell: non importa che Trump attacchi il senatore del Kentucky per aver votato il pacchetto di Joe Biden sulle infrastrutture e sostenendo lo sforzo di Liz Cheney per sopravvivere politicamente nella brutale primaria che l’aspetta l’anno prossimo in Wyoming. McConnell, come McCarthy, non vuole rompere. Questo è il punto che unisce la leadership repubblicana di oggi: l’assenza di idee e il pensiero tatticista che pensa a come vincere il prossimo conflitto politico con l’Amministrazione democratica. Poco importa che un candidato sostenuto da Trump come Sean Parnell in Pennsylvania per il Senato si riveli un personaggio impreparato e con un’imbarazzante storia di violenza familiare. Gli attuali leader repubblicani non stanno guidando. Stanno tenendo la macchina parcheggiata in attesa del ritorno del leader ombra di Mar-a-Lago.