Il foglio del weekend
Chi cura le ferite di Kabul. Intervista
Tutto ha inizio con l’incontro con Mahmoud, l’uomo sulla sedia a rotelle. La guerra civile, il ritorno dei talebani e la vita degli ultimi. A colloquio con Alberto Cairo, che ridà le gambe e le braccia agli afghani
"I make arms and legs”. Faccio braccia e gambe. Comincia così il toccante intervento che Alberto Cairo fece nell’ormai lontano 2011 sulla piattaforma Ted Talks. Sin dalle prime parole, pronunciate con voce calma, pacata, e dalla postura che assume al centro di un palco difficile da sostenere (soprattutto se non sei abituato ai riflettori e vivi ai margini della vita occidentale), si percepisce l’incanto di una rivelazione. Venti minuti di monologo per raccontare vent’anni di esperienza professionale ed esistenziale in Afghanistan, cominciata nel 1990 come inviato della Croce Rossa internazionale. Da allora sono trascorsi altri dieci anni e il fisioterapista Alberto Cairo è ancora lì, ad aiutare uomini, donne e bambini disabili. Vittime della guerra e non solo. Un terzo dei 14000 pazienti presi in carico ogni anno è rappresentato da bambini con paralisi cerebrale conseguenti a gravidanze e parti non assistiti. In tre decenni i centri ortopedici si sono moltiplicati. Cairo ne dirige sette, in tutto il paese.
Trent’anni di disgrazie e pochi raggi di sole, cinque diversi regimi, guerra civile, bombardamenti e tregue precarie, timidi avanzamenti e brutali retrocessioni come testimonia, nello scorso agosto, la nuova presa del potere da parte dei talebani, determinati a cancellare due decenni di incerti quanto fondamentali progressi. Tutti avvenimenti che Alberto Cairo ha vissuto sul campo, in prima persona. Fedele al suo lavoro, che sarei più propensa a definire missione, benché conosca la sua nota riluttanza all’encomio (“ti pregherei di non dipingermi santo, eroe o angelo perché proprio non lo sono”), Cairo è rimasto e rimane tuttora in Afghanistan mentre chi può, fugge: “Se se ne va anche la Croce Rossa, chi resta?” mi dice senza enfasi e con salda fermezza. Siamo collegati via Skype, io dalla mia cucina a Roma, lui dalla sua casa a Kabul e più parla, più cresce la mia ammirazione.
Sono passati tre mesi dall’arrivo dei talebani, che ripercussioni ci sono state nel tuo lavoro?
“Dal mio punto di vista è cambiato ben poco. Il mio lavoro continua, non ho subito interferenze. I talebani hanno capito che è anche nel loro interesse lasciarci lavorare come prima. I problemi sono altri: molti ospedali sono senza farmaci, medici e infermieri non percepiscono stipendio e sono costretti a cercarsi altri lavori. Ma la situazione è dappertutto disastrosa… In sintesi le parole chiave sono: caos, paralisi, paura, infelicità. E’ tutto fermo, i ministeri sono chiusi, gli impiegati pubblici non lavorano più, l’università, le ambasciate, le banche sono chiuse. Se hai bisogno di un documento non sai come fare. Il dramma è la povertà, e la mancanza di speranza dovuta a un’incertezza che paralizza la vita di tutti i giorni. Il fatto è che i talebani non stanno ancora governando. E’ difficile tentare un dialogo con loro, sono impermeabili, e inoltre stanno molto attenti a non alienarsi il favore dei fondamentalisti che rappresentano la loro base. La guerra non c’è più ma non c’è nemmeno la pace, con tutti i significati che essa comporta”.
Come si vive l’emergenza Covid?
E’ l’ultimo dei problemi… Naturalmente adottiamo le misure basiche di protezione, ma l’emergenza qui è di tutt’altro genere.
In questi ultimi anni l’Afghanistan ha ricevuto finanziamenti dalla comunità internazionale, flussi imponenti di denaro oggi drasticamente interrotti. Non potrebbe essere questo un motivo per costringere i talebani a fare delle concessioni?
“Difficile rispondere. Secondo alcuni saranno costretti a cedere, secondo altri no perché conviene loro che si arrivi intenzionalmente alla fame per poter addossarne la colpa alla comunità internazionale. Inoltre le banche sono chiuse e senza un sistema bancario è difficile far arrivare i fondi. La comunità internazionale sta cercando in tutti i modi di garantire gli aiuti umanitari senza passare attraverso il governo talebano che non è stato ancora ufficialmente riconosciuto”.
Quali sono le differenze rispetto ai talebani che presero il potere nel 1996?
“I talebani di venticinque anni fa furono accolti quasi con sollievo. Eravamo talmente stufi della guerra civile, la situazione era invivibile, ci si è illusi che avrebbero messo un po’ d’ordine. Purtroppo non è stato così, lo si è capito ben presto, e la gente è stata schiacciata da regole ferree, discriminatorie. Adesso che li conosce fanno molta più paura, per questo c’è stata questa fuga di massa. La prima volta che andarono al potere non sapeva cosa avrebbe potuto perdere, adesso lo sa”.
Da qui si ha l’impressione, e insieme la speranza, che le donne stiano reagendo, incoraggiate da vent’anni di emancipazione. Abbiamo visto alcune di loro manifestare pubblicamente il loro dissenso. E’ illusorio che possano rappresentare una svolta?
“Per decenni le donne non hanno avuto accesso agli studi e al lavoro. Oggi si è creato un serbatoio di donne potenzialmente capaci di esprimere se non altro la loro esistenza. Ma è un potenziale, appunto. Le dimostrazioni di cui parli sono in realtà piccole gocce che tengono viva la speranza, ma purtroppo, per adesso, non riscuotono la minima considerazione. La verità è che i talebani sembrano terrorizzati dalle donne. Me ne accorgo quando vengono nel nostro centro. Se passa una donna – da noi lavorano parecchie donne – abbassano il capo o si voltano dall’altra parte, come fossero il diavolo contaminatore”.
Sembra incredibile che anche i giovani talebani non siano minimamente sfiorati dalla contemporaneità, dalla modernità, sembrano usciti dalle caverne…
“Molti di loro sono cresciuti in ambienti chiusi e ostili al mondo esterno. Non hanno studiato. La cosa che sanno fare meglio è combattere in guerra”.
In questi trent’anni sei stato testimone di molti avvenimenti drammatici, quali sono stati i momenti più difficili?
“Nel 1992 i Mujaheddin si impadronirono dell’Afghanistan, e la guerra civile che ne è scaturita, durata due anni, è stata terribile. Il centro ortopedico nel quale lavoravo venne chiuso poiché si riteneva che la riabilitazione fisica non fosse una priorità. Cominciai a occuparmi dei senzatetto in attesa di poter tornare al mio lavoro. Ma un giorno accadde qualcosa. Mentre rientravo a casa la mia macchina fu sfiorata dall’esplosione di una bomba. La gente fuggiva, la strada si svuotò nel giro di pochi istanti. Non c’era più nessuno intorno a me, tranne una figura che vidi stagliarsi nella polvere. Era un uomo su una sedia a rotelle, immobile al centro della strada. Dietro di lui un bambino, suo figlio, cercava disperatamente di spingere il padre per metterlo al riparo. Scesi dall’auto per aiutarli. L’uomo non aveva più le gambe e gli mancava un braccio. Pensai che se avesse avuto gli arti artificiali non avrebbe messo in pericolo la sua vita e quella di suo figlio e allora, senza tener conto della chiusura del centro di riabilitazione, lo invitai a presentarsi. Mi pentii di avergli fatto una promessa che non avrei potuto mantenere, ma quando il giorno dopo passai al centro, Mahmoud e suo figlio erano già lì, e insieme a loro se ne erano aggiunti altri, una ventina di persone disabili in attesa davanti al cancello chiuso. Sapevo di infrangere le regole e di andare incontro al pericolo ma non potevo ignorare tutte quelle persone che chiedevano il mio aiuto. E così, quasi di nascosto, ricominciammo a far funzionare il centro, prima con la riparazione di protesi difettose, poi con la fabbricazione”.
E Mahmoud?
“Veniva al centro ogni giorno, attraversava la linea del fronte, non ho mai capito come fosse in grado di farcela, era un’impresa terrificante, ma la prospettiva di riacquistare un paio di gambe era più forte di ogni cosa. Fabbricammo le protesi, e piano piano, dopo settimane di riabilitazione, Mahmoud era pronto a camminare con le sue nuove gambe. Il giorno che lo vidi andar via insieme al figlio spingendo la sedia vuota, capii quanto fosse importante il mio lavoro. La riabilitazione fisica è una priorità, la dignità non può attendere tempi migliori. Da allora il centro non è mai più stato chiuso”.
Dignità, una parola poco pronunciata eppure così importante. Molte delle parole pronunciate da Alberto Cairo sono importanti, spazzano via quelle inutili.
Una delle prerogative del tuo centro si basa su ciò che hai definito la “discriminazione positiva”, vale a dire la decisione di formare professionalmente e poi assumere gli stessi invalidi, che da ex pazienti diventano operatori della struttura. Com’è nata questa iniziativa a suo modo rivoluzionaria?
“Uno dei nostri principi fondativi consiste nel reinserimento sociale, che si raggiunge attraverso l’istruzione, il lavoro, anche lo sport. Quindi sin dagli inizi volevamo impegnarci in questo senso. La scintilla però è stata accesa ancora una volta da Mahmoud… Dobbiamo tornare indietro nel tempo. Un anno dopo essere stato dimesso, Mahmoud si presentò di nuovo al centro. Era venuto per la sostituzione delle protesi, ma capii dal suo sguardo che c’era dell’altro. Gli chiesi quale fosse il problema, e lui, con infinito imbarazzo, mi disse: ‘Mi hai insegnato a camminare, ora aiutami a non essere più un mendicante, sono disposto a tutto’. Ero pronto a dargli dei soldi ma lui non voleva elemosina. Era un lavoro che cercava. Non sapevo come avrei potuto aiutarlo, era senza gambe, con un solo braccio, analfabeta… Ma il mio assistente ci sorprese con una proposta: ‘C’è un posto libero in falegnameria, abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti nella produzione di piedi’. Mi sembrava una proposta davvero azzardata, ma diedi loro fiducia…”.
E come andò?
“Mi stupii per primo. Dopo un breve periodo di apprendistato, Mahmoud si dimostrò uno dei più bravi artigiani della squadra! La dignità ritrovata, non solo grazie alle protesi ma attraverso il lavoro, lo aveva reso un uomo nuovo. Il suo sguardo era cambiato e da quel giorno cambiò anche la nostra politica. Decidemmo così di formare professionalmente il maggior numero di invalidi e di assumerli. Oggi nei nostri centri lavorano 815 persone di cui 785 disabili. Fra loro 300 sono donne. In Afghanistan i disabili non sono rifiutati dalla società, ma non viene offerta loro alcuna opportunità. Fin tanto che le cose non cambiano noi continueremo con la nostra discriminazione al rovescio”.
Quali risultati avete ottenuto adottando questo nuovo metodo?
“Tutti traggono dei vantaggi: gli impiegati naturalmente, ma anche i pazienti, che attraverso l’esperienza di chi li cura si riempiono di speranza. Inoltre si stabilisce una relazione più profonda perché, conoscendo il problema intimamente, sanno come rivolgersi ai malati, e a volte ne anticipano le esigenze. Per esempio, è molto interessante vedere le reazioni di quelli che si presentano la prima volta. Per loro mettiamo in piedi una specie di teatrino…”.
E cioè?
“Sai, molti invalidi vengono solo per chiedere una sedia a rotelle. Non si aspettano altro. Sono tristi, depressi, rassegnati alla loro condizione. Neanche ci guardano in faccia. A quel punto noi partiamo con le solite domande: ‘Cosa vuoi? Perché sei venuto qui?’. La risposta talvolta è uno sguardo seccato, come a dire. ‘Che non lo vedi? Ho bisogno di una sedia a rotelle, è ovvio…’. E noi: ‘Soltanto questo? Sei sicuro?’. Al che, come da copione, chiamiamo uno dei nostri collaboratori e cominciamo a farlo camminare avanti e indietro mentre quello lo guarda senza capire. Al termine del défilé, il nostro ‘complice’ si tira su i calzoni e mostra le sue protesi. ‘Vedi? Io sono mutilato proprio come te. Eppure cammino’. Dovresti vedere la faccia delle persone”.
Io invece guardo la bellissima faccia di Alberto, così piena di entusiasmo per le conquiste che il suo lavoro gli offre ogni giorno, e sarà retorico, ma incasso tutto ciò che mi racconta come una lezione preziosa da imparare e da serbare nella mia mente. Ora che ci avviciniamo verso la fine della nostra conversazione capisco quanto pleonastico sia stato domandargli perché non se ne fosse andato. Il lavoro è la sua vera ragione di vita.
Mi chiedo e gli chiedo a cosa ha dovuto rinunciare in nome di questo.
“Io amo il mio lavoro. Qui ho potuto fare molto, non so se in altri paesi avrei avuto le stesse libertà. Certo in Afghanistan la vita è molto costretta, però arriva un momento in cui devi scegliere, io so che stando qui ho dovuto rinunciare a qualcosa, ma quello che ho perso non è mai stato importante quanto quello che ho guadagnato. Ho ricevuto più di quello che ho dato. Le persone arrivano al centro infelici e se ne vanno meno infelici, questa per me è una grandissima soddisfazione, mi piace vedere la gente contenta. Certo è un lavoro faticoso, comincio alle sei del mattino e finisco alle sei di sera, dovrei essere in pensione da anni, ma mi hanno chiesto di rimanere, e naturalmente ho detto di sì”.
Cosa fai quando non lavori?
“Leggo molto, soprattutto romanzi. Sono una persona abbastanza solitaria, datemi dei libri e mi fate contento. Amo la letteratura inglese ma leggo anche autori italiani, naturalmente. Ho letto ‘Tutto chiede salvezza’ di Daniele Mencarelli ben quattro volte! Faccio ginnastica, tutti i giorni. E scrivo. Eh, sì, sto scrivendo da undici anni un romanzo… ma sono molto discontinuo, l’altro giorno mi sono reso conto che un mio personaggio aveva avuto due figli nel giro di sei mesi!”.
Vorresti aggiungere qualcosa? Qualcosa che ritieni necessario venga detto?
“Una sola cosa: non dimenticateci. Ad agosto tutti i riflettori erano puntati su di noi, per tre settimane ci hanno cercato tutti, poi sono scomparsi. Ecco, non vorrei scendesse sull’Afghanistan lo stesso silenzio della fine degli anni Novanta, quando sembrava che questo paese nemmeno esistesse”.