Patti da legare
Il fallimento degli accordi feticcio, nascono deboli e finiscono peggio (da Kabul all'Ucraina)
Inutile fare patti internazionali solenni e poi ignorarli. La Russia sostiene persino che il Minsk II non riguarda la Russia
Anche questa seconda grande crisi internazionale del 2021 è come la prima – il collasso dell’Afghanistan nelle mani dei guerriglieri talebani – il risultato di un accordo di facciata che per anni nessuno ha mai avuto davvero intenzione di rispettare. Al punto che c’è da chiedersi se valga la pena firmare questi accordi se già al momento della firma si pensa che siano deboli e se poi le conseguenze sono queste. Gli accordi di Doha hanno fatto da preludio al tracollo afghano, gli accordi di Minsk hanno portato al video incontro emergenziale di ieri sera tra il presidente americano Joe Biden e quello russo Vladimir Putin per scongiurare la guerra.
Nel caso dell’Ucraina le conseguenze sono: almeno centomila soldati russi ammassati da settimane al confine con armi e mezzi, in una postura costosa e minacciosa, pronti a un’invasione che dal punto di vista materiale arriverebbe forse a metà del paese a seconda dei piani reali di Mosca, ma stravolgerebbe l’Europa, la Nato, la Russia e gli Stati Uniti (oltreché l’Ucraina stessa). Nel febbraio 2015 rappresentanti della Russia, dell’Ucraina, dell’Osce (l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione) e i leader filorussi di due regioni separatiste firmano un accordo di tredici punti a Minsk, in Bielorussia, che viene chiamato “Minsk II” perché pochi mesi prima c’era stato un cessate il fuoco sempre firmato nella capitale bielorussa.
Francia, Germania, Russia e Ucraina si incontrano nello stesso giorno e firmano una dichiarazione congiunta di sostegno all’accordo. Il punto dieci impone il ritiro di tutte le formazioni armate straniere, dell’equipaggiamento militare e dei mercenari. Si tratta di una richiesta che riguarda in modo specifico la Russia, che muove nel Donbass ucraino soldati e mezzi militari per appoggiare i separatisti, ma Mosca sostiene invece che no, il punto dieci non riguarda la Russia (lo ha detto Alexander Lukashevich, rappresentante permanente della Russia all’Osce, a maggio di quest’anno). Negli anni foto satellitari e a terra mostrano equipaggiamento militare russo al di qua del confine ucraino, ma non è questo il punto che conta.
Conta che a livello politico l’accordo di Minsk II non riesce a produrre effetti e non c’è nessuno che abbia voglia di chiedere ai contraenti di rispettare le clausole. Come in Afghanistan, dove i talebani volevano negoziare in via diretta con l’America e rifiutavano di parlare con il governo di Kabul, anche in Ucraina i russi vogliono soprattutto parlare con l’Amministrazione americana – e il summit su schermo di ieri ne è una prova – e ignorano o quasi il governo di Kiev. Da parte loro anche gli ucraini hanno cominciato a violare il Minsk II – considerato che una violazione dall’una e dall’altra parte fa crescere l’appetito per nuove violazioni. Anche se formalmente hanno ritirato i soldati dalla zona demilitarizzata che in teoria fa da confine con le regioni separatiste in pratica l’Ucraina non ha fermato le bande di volontari molto politicizzati che andavano al fronte.
A ottobre gli ucraini hanno fatto volare un drone turco Baryaktar sulle posizioni dei separatisti e la cosa, oltre a essere una rottura delle misure di controllo del cessate il fuoco approvate da entrambi gli schieramenti, aveva il potenziale per far innervosire molto i russi. Sono gli stessi droni turchi che hanno messo in fuga i russi in Libia e a Idlib, nel nord della Siria. I russi non vogliono vedere i droni di fabbricazione turca anche nel Donbass separatista. L’accordo di Minsk II in teoria dovrebbe prevenire tutta questa situazione. E invece non funziona.