L'occidente è al tramonto?
Il periodico ritorno delle idee di Oswald Spengler. L’Europa non è più il centro del mondo, le democrazie arretrano, l’Oriente avanza. Ma siamo davvero al capolinea? Dialogo tra un declinista e un antideclinista
L’Europa non è più il centro del mondo. Le democrazie arretrano. Il lontano Oriente prende il sopravvento. Biagio De Giovanni, in un acuto articolo pubblicato dal Riformista del 3 dicembre 2021 ha evocato il famoso volume di Oswald Spengler sul “tramonto dell’Occidente” e invocato un rimedio, la cooperazione rafforzata all’interno dell’Unione europea. Dobbiamo preoccuparci? Ascoltiamo la voce di un “declinista” e di un “antideclinista”.
Declinista. Abbiamo importato dalla Cina il virus, poi abbiamo importato, sempre dalla Cina, a pagamento, le mascherine e i “kit” per i tamponi antigenici. La Cina si sta espandendo in Africa. Le nostre barriere sono molto deboli: in generale, il “Golden Power”; nel campo digitale l’Agenzia per la “cybersecurity”. Ma queste difese sono molto modeste e non ci proteggono da un’ulteriore attrazione esercitata dal lontano Oriente, quella dei sistemi autocratici, dove un approccio liberista in economia è coniugato con uno statalista in politica.
Antideclinista. Suggerisco di fare attenzione alla “declinazione del declino”. Vi sono vari modi di intenderlo e diverse voci contrarie. C’è il declino demografico dell’Occidente, e quello economico. Poi, il cambiamento della bilancia dei poteri tra Est e Ovest. In quarto luogo, il declino dei valori politici dell’Occidente, quali società aperta, libertà e democrazia. Quinto: il declino inteso in un senso più ampio, come declino dei valori morali e crisi di una civilizzazione. Sesto: in senso più ristretto, la fine di un punto di vista eurocentrico della storia. Settimo: l’inizio di una diversa percezione delle diversità nel mondo. Questi segnali sono pieni di contraddizione. Per esempio, l’Europa è decima dal punto di vista della popolazione, ma terza dal punto di vista economico.
Declinista. Aggiungerei al declino dei valori, dei principi e della civilizzazione la deriva cesaristica che viene dall’Oriente, non solo dalla Cina ma anche dalla Russia, dove al vertice si sono affermate vere e proprie monarchie, anche se non dinastiche. Antideclinista. Attenti a non ingigantire il fenomeno, anche perché abbiamo alle spalle una ricca letteratura, che copre un intero secolo: il declino dell’Occidente è stato temuto, annunciato, ma non è avvenuto. Bisogna distinguere attentamente le percezioni dalla realtà. Lo storico tedesco Oswald Spengler scrisse nel 1918-1923 il famoso libro “Il tramonto dell’Occidente” e l’ultimo libro in materia è quello dello storico italiano Giampietro Berti, “Crisi della civiltà liberale e destino dell’Occidente”, Soveria Mannelli, Rubettino, 2021. Non dimentichiamo che il libro di Spengler venne subito criticato da più parti e, in particolare, da Thomas Mann e da Benedetto Croce. In mezzo, tra le due date estreme, che coprono un secolo, vi sono molti altri libri che hanno toccato o sfiorato il tema, principale quello di Johan Huizinga, “La crisi della civiltà”, del 1935, che è una diagnosi del moderno malessere e quello del 1942 di Stefan Zweig “Il mondo di ieri”, sulla fine dell’epoca d’oro della sicurezza. Questa letteratura è così ricca che una studiosa italiana, Michela Nacci, ha pensato bene di scrivere un’analisi di questo disagio della civiltà, intitolata “Tecnica e cultura della crisi. 1914-1949”, pubblicato nel 1982.
Declinista. Bisogna tener conto degli effetti di accumulo. Storici e politologi studiano da qualche tempo quello che è stato chiamato l’effetto catasta. Si tratta dell’accumularsi di motivi di crisi l’uno sull’altro, finché l’ultimo fa cadere la catasta. Nella pila che si è andata formando fin dalla Prima guerra mondiale, vi sono tanti elementi che concorrono al tramonto dell’Europa (una volta il centro dell’Occidente), dalla concezione dello Stato al rispetto delle libertà, al ruolo degli utenti dei servizi pubblici, alle interferenze con la politica. Non bisogna dimenticare che nel 1776, l’anno della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti, furono pubblicati due libri, il primo di uno storico inglese, il secondo di un economista e filosofo scozzese, che si conoscevano bene. Il primo (Edward Gibbon) studiò la storia del declino e della caduta dell’Impero romano; il secondo (Adam Smith) la natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Ambedue si ponevano lo stesso problema, rispetto all’inizio della fine dell’impero britannico, che ci poniamo oggi noi, con riguardo all’intero Occidente.
Antideclinista. Insisto sull’aspetto semantico, che è anche rilevante dal punto di vista storico. I termini con cui si indica questo fenomeno sono diversi: malessere, crisi, caduta, tramonto. Inoltre, questo stato di crisi non necessariamente conduce al declino e alla caduta. Le crisi possono contribuire a uno sviluppo graduale delle istituzioni. L’allora ministro delle Finanze tedesco Helmut Schmidt, in una conferenza tenuta il 29 gennaio del 1974 al Royal Institute of International Affairs di Londra, affermò che la costruzione europea “vive di crisi”. Questo tema fu sviluppato qualche anno dopo in alcune pagine delle memorie di Jean Monnet. Ci si può chiedere se le modificazioni che stanno intervenendo, piuttosto che andare nel senso della disunione, non vadano nella direzione della unità del mondo, come dimostrato dagli sviluppi della tecnologia e degli interventi sul clima, che richiedono tutti interventi cooperativi: il declino può spingere a maggiore cooperazione tra le nazioni.
Declinista. Bisogna anche tener conto delle fratture che si sono evidenziate nell’Occidente, quella tra gli Stati Uniti e l’Europa e quella tra l’Unione europea e il vicino Oriente. Il politologo americano Walter Russell Mead, ha parlato dell’inevitabile declino degli Stati Uniti nel libro intitolato “Mortal Splendor. The American Empire in Transition”, pubblicato nel 1988 da Houghton Miffin, Boston. La crisi della coesione dell’Occidente, nel quale emergono punti di vista tra di loro in conflitto, fa dubitare di quella coesione che è necessariamente alla base della democrazia. Aggiungo la disconnessione tra democrazia e diritti, come quella affermata da Orbán in Ungheria, la richiesta di maggiore partecipazione, anche rinunciando ad alcuni diritti, il ruolo di grandi multinazionali che operano come veri e propri governi, senza tuttavia assicurare democrazia al loro interno. Tutti questi sono elementi di debolezza dell’Occidente.
Antideclinista. Non sono d’accordo. Le difficoltà nell’Occidente, emerse nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa, derivano da un ribilanciamento transatlantico legato alle difficoltà interne degli Stati Uniti, ma anche alla necessità dell’Unione europea di badare alla propria difesa. D’altra parte, le catene globali del valore tengono insieme il mondo e le pressioni della comunità internazionale per realizzare più libertà e democrazia in tutti i paesi hanno dato luogo a iniziative come quella del Fondo per la democrazia delle Nazioni unite e il parallelo fondo europeo. Quella che viene chiamata deglobalizzazione non è altro che un rimodellamento, una riduzione delle linee di approvvigionamento su scala regionale. Comunque, ogni catena del valore dipende da altre catene. Un altro segno dello sviluppo di una globalizzazione che tiene unito il mondo, in contrasto con il declino di una sua parte, è quello costituito dal compromesso Merkel basato sull’articolo 322.1 a) del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che ha ingegnosamente collegato finanziamenti europei con rispetto della “Rule of law”.
D’altra parte, gli Stati non possono rimettere in discussione il cosiddetto “acquis communautaire”, che non può essere modificato ogni volta che uno Stato cambia orientamenti politici. Il mondo è sempre più interdipendente, ed è difficile tornare indietro. La globalizzazione non va certamente nel senso hegeliano di uno Stato universale e omogeneo. Essa va declinata al plurale, perché molti sono i regimi regolatori globali. Quello che importa è che la globalizzazione tocca anche i cittadini e riesce a tenere sotto controllo i conati sovranisti presenti in molti Stati. Inoltre, la globalizzazione economica ha bisogno di “meta-regole”, come i “Global Legal Standards” e di uno sviluppo ulteriore del diritto amministrativo globale, la cui unica debolezza è quella relativa alle grandi multinazionali. Zuckerberg ha dichiarato recentemente “io consento a tre miliardi di utenti di comunicare alla pari con l’elite”. E’ la seconda volta che il fondatore di Facebook paragona la sua azienda a uno Stato.
Declinista. Ma non si può negare che vi siano delle sfere di influenza e che vi siano modi diversi di intendere la democrazia: c’è chi tende a identificarla con elezioni, chi invece pensa che i regimi democratici abbiano anche altre necessarie caratteristiche, come il rispetto delle libertà essenziali, la garanzia dei diritti umani, un alto grado di partecipazione alle decisioni amministrative (democrazia deliberativa).
Antideclinista. Proprio queste osservazioni fanno capire che la democrazia è un insieme di istituti, che non si possono ridurre, semplificando, al semplice voto dei cittadini
Declinista. La difficoltà delle democrazie è innanzitutto prodotta dal fatto che non hanno trovato modi nuovi per controllare i nuovi poteri e che non sono riuscite ad aumentare conoscenza e competenza nei propri ordinamenti.
Antideclinista. Ritorno all’idea dell’allora ministro delle finanze tedesco Helmut Schmidt, l’idea che una crisi possa essere utile e che dopo il declino possa esserci una ripresa. Il declino può essere assoluto o relativo. Molte volte nel corso della storia sono cambiati gli equilibri tra i paesi.
Declinista. Vi sono alcuni paesi che sono colpiti dalla crisi più di altri. L’ultimo rapporto Svimez mette in luce che le regioni italiane arretrano rispetto agli altri paesi europei e l’Italia, uno dei paesi più antichi dell’Occidente, registra, insieme con la Grecia, un declino più accentuato da un quarto di secolo.
Antideclinista. Bisogna guardarsi dall’idea di un rigido nesso tra causa ed effetto, come ammoniva Alexandre Kojève (su cui di recente Marco Filoni ha scritto un libro intitolato “L’azione politica del filosofo. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève, Bollati Boringhieri, 2021). Bisogna invece considerare il fenomeno dal punto di vista dei cicli storici, come hanno fatto in passato Karl Mannheim e, in anni più vicini a noi, Arthur Schlesinger padre e figlio. Gli ultimi studi mostrano che ogni circa 80-90 anni c’è un ciclo di ripresa, sviluppo e crisi (su questo argomento hanno scritto un libro interessante William Strauss e Neil Howe, “The Fourth Turning: What the Cycles of History Tell Us About America’s Next Rendezvous with Destiny”, New York , Three Rivers Press, 2009).
Declinista. Ritorno sull’idea che la globalizzazione sia favorita dalla digitalizzazione. E’ vero che questa si diffonde, ma dubito che essa operi come fattore unificante perché proprio lì vi sono dislivelli e asimmetrie. Il digitale è uno spazio nel quale vivere, è un modo di produzione che ha molte implicazioni e richiede una reinterpretazione della nostra realtà. Ma i dislivelli e le asimmetrie sono molti. C’è un regolatore universale che, tuttavia, disciplina solo gli aspetti tecnici. Vi sono squilibri tra fornitori di notizie e utilizzatori, tra editori di giornali e prestatori di servizi della società dell’informazione, nonché negli interventi statali diretti a ri-bilanciare questi rapporti. Il mosaico di norme nazionali produce dislivelli regolatori, specialmente a carico delle società che operano in più nazioni. Vi è un’incapacità di avviare un dialogo simile a quello che viene chiamato “judicial dialogue”, che assicura una cooperazione tra le corti.
Antideclinista. Non vorrei apparire grossolano, ma, al di là di tutte queste osservazioni, la realtà è che la costituzione di reti universali, sia pure piene di buchi, ha prodotto, dalla Seconda guerra mondiale in poi, un minor numero di conflitti e comunque conflitti bellici locali. Quest’altro successo della globalizzazione non dovrebbe far temere un tramonto dell’Occidente.