Lukashenka mette in galera per decenni la Bielorussia libera

Micol Flammini

Diciotto anni a Siarhei Tikhanovski, il principale oppositore del regime, con cui tutto è incominciato. Assieme a lui sono state condannate altre cinque persone e sono più di 900 i prigionieri politici. Il dittatore ha ormai reso Minsk un posto vuoto, la nazione sopravvive nelle idee dei dissidenti: chi in esilio, chi in prigione

In Bielorussia ci sono novecentoventi  prigionieri politici, molte persone sono state costrette a lasciare la nazione per paura di essere arrestate, torturate o anche uccise e il numero degli arresti e delle fughe è aumentato dalle ultime elezioni presidenziali nell’agosto del 2020, delle quali  Aljaksandr Lukashenka si è autoproclamato vincitore. L’obiettivo del dittatore è quello di costruire una Bielorussia su misura per lui che non contesti il suo mandato,  di lasciare libera soltanto la popolazione o troppo spaventata per protestare e cercare di fermarlo o che è dalla sua parte. È un lavoro lungo, che il dittatore bielorusso sta conducendo però a gran velocità.

   

Ieri nel tribunale di Homel sono state emesse quattro sentenze importanti, una, molto attesa, è stata contro Siarhei Tikhanovski, il marito di Svjatlana Tikhanovskaja – leader dell’opposizione bielorussa che ormai vive in esilio in Lituania – condannato a diciotto anni di carcere. Da Siarhei era iniziato tutto, era uno youtuber che prima delle elezioni aveva iniziato a raccontare le lamentele dei bielorussi, i loro problemi, le loro difficoltà. Poi queste lamentele le ha convertite in protesta e nelle manifestazioni contro Lukashenka, tutti sventolavano un simbolo: una pantofola per schiacciare lo scarafaggio Lukashenka. I cortei sono diventati sempre più frequenti, hanno preso il nome di protesta delle pantofole, e Tikhanovski aveva iniziato a pensare che forse lui, visto il grande seguito, avrebbe potuto sfidare il dittatore. Lukashenka lo ha arrestato prima che potesse candidarsi e così ha fatto con tutti gli altri possibili candidati. Non lo ha fatto con sua moglie Svjatlana e secondo lo spoglio indipendente delle schede sarebbe lei la vincitrice delle elezioni. 

    

  

Durante le proteste che ci sono state dopo il voto e anche  quando ormai la popolazione bielorussa non aveva più la forza di protestare, sono stati arrestati cittadini con ogni scusa. Chi perché esponeva simboli della Bielorussia libera, chi per un post sui social, chi perché distribuiva fiori. Circa sei persone sono morte o durante le proteste, o durante gli arresti o in carcere. La Bielorussia ha iniziato a diventare una prigione,  ovunque il dittatore ha iniziato a pretendere lealtà – secondo alcune fonti avrebbe anche deciso di dimezzare il personale della polizia, vuole tenere soltanto i fedelissimi – i suoi uomini hanno iniziato anche a fare irruzione nelle case di parenti di cittadini in esilio e i tribunali sono diventati il palco in cui il regime vuole mostrare l’esemplarità delle sue pene: quelle mostrabili, perché nelle prigioni accade molto di peggio. 

   

Assieme a Siarhei Tikhanovski, ieri a  Homel erano presenti altri cinque imputati. Ihar Losik, blogger che ha collaborato anche con la testata Radio Free Europe/Radio  Liberty (Rferl), Mikalai Statkevich, ex candidato alla presidenza. E gli attivisti Uladzimer Tikhanovich, Artsiom Sakau e Dmitri Popov. La pena minore è quella a 14 anni per Statkevich, il quale è entrato in aula gridando “lunga vita alla Bielorussia”. Tikhanovski invece durante l’udienza ha tenuto tutto il tempo le spalle al giudice. Tutti e sei gli imputati erano rinchiusi in una gabbia, ridevano: l’unico modo per rispondere a un processo sommario. Ihar Losik, il blogger, durante la sua detenzione ha già fatto per due volte lo sciopero della fame e ha cercato di uccidersi. Sua moglie Dasha in un video pubblicato sui social ha raccontato che le condizioni della detenzione sono insostenibili, fisicamente e psicologicamente, se non sono le torture a uccidere i detenuti, sono le condizioni a spingerli al suicidio. Altri vengono costretti a registrare video di scuse, ad ammettere colpe mai commesse, a umiliarsi in video che poi vengono diffusi online: l’opposizione ha sottolineato come tutto questo avvenga con la compiacenza di Google e YouTube. 

  

Di tutti questi attivisti  condannati non è mai chiaro quale crimine avrebbero commesso. Ma il regime non ritiene neppure  opportuno spiegarlo, incarcera, reprime, emana condanne, continua a reprimere. “L’esistenza stessa di queste persone costituisce un crimine contro il regime. Vengono condannati per aver desiderato di vivere in una Bielorussia libera”, ha scritto Svjatlana Tikhanovskaja su Twitter, lei, moglie dell’oppositore da cui tutto è cominciato, che ha concretizzato la voglia di democrazia. Tikhanovski è l’uomo più temuto da Lukashenka ed è  quello che finora ha ottenuto più anni, l’equivalente a una condanna per omicidio. 

  

La Bielorussia è ormai un posto vuoto, un luogo del dolore. Esiste un’idea della nazione fuori dai suoi confini o dentro le carceri. Per il resto è repressione. Hanna Liubakova, assistente della leader dell’opposizione, ha pubblicato una foto che racconta molto di questo senso di vuoto. Lei con altre quattro persone, tra cui Losik, a un evento organizzato da Rferl tre anni fa. Lei e un altro, Franak Viacorka, sono in esilio, Losik è in prigione, della quarta non si hanno notizie.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)