L'uomo forte 2.0
Dieci anni dopo Ben Ali, il potere a Tunisi è di nuovo in mano un'unica persona: il presidente Kais Saied
La road map un po’ dal basso e un po’ autoritaria, la crisi dei rifiuti (che ci riguarda) e le riforme mai fatte
Nel 2011, il dittatore della Tunisia Ben Ali veniva cacciato dalla piazza. Nel 2021, l’uomo solo è tornato al potere, impensabile fino a qualche anno fa. Il 25 luglio, il presidente Kais Saied ha licenziato governo e Parlamento. Da allora, circondato da una manciata di consiglieri fidatissimi, impone dall’alto l’agenda politica del paese. La sua road map si è fatta aspettare per cinque mesi, tanto che c’è chi ha iniziato a pensare che non ne avesse alcuna. Chi lo segue fin dall’epoca della campagna elettorale sostiene invece che fosse già pronta da tempo, e che Saied stesse solo attendendo il momento giusto per intervenire. Quale periodo migliore dell’anno della pandemia e dello stato d’emergenza? Se nel 2021 si è assistito allo smantellamento delle istituzioni democratiche in Tunisia, il 2022 sarà l’anno della loro ricostruzione in nome di un ideale utopico di democrazia diretta: quella che Kais Saied vuole incarnare quando, rigorosamente in diretta social, stringe le mani ai suoi seguaci per le strade delle periferie e delle regioni marginalizzate. Lui, solo, senza intermediari, promette di distribuire riforme e soluzioni come un padre di famiglia, punendo chi non ubbidisce, premiando chi lo sostiene. “Sono il presidente del popolo tunisino”, ha affermato più volte. Così diceva il motto della sua campagna elettorale: as-sha’ab yurid, il popolo vuole.
Lunedì 13 dicembre, anticipando di qualche giorno la manifestazione indetta dall’opposizione in occasione dell’anniversario della rivoluzione che ricorre oggi, venerdì 17 dicembre, Kais Saied ha sorpreso il paese con nuove dichiarazioni in diretta Facebook e tv. Il presidente ha convocato nuove elezioni legislative a dicembre 2022 e un referendum costituzionale per il prossimo 25 luglio. Dal primo gennaio al 20 marzo, ha detto, sarà possibile sottoporre online richieste e suggerimenti in vista della riscrittura della Costituzione. Come, ancora, non si sa. Le incognite sono tante, a partire dalla modalità di svolgimento del referendum. Il voto si terrà online – non è ancora chiaro se totalmente o in parte – e servirà ad approvare il nuovo testo. Chi accoglierà i suggerimenti dei cittadini e a chi spetterà il compito di redigere la Costituzione, che sostituirà quella entrata in vigore nel 2014, non si sa. Saied non ha parlato di costituente. Una cosa è certa: la Costituzione del 2014 è già un ricordo, perché non viene più applicata. Le decisioni dipendono solo dal presidente, che non rinuncia ai simboli: il 20 marzo, giorno dell’indipendenza del paese nel 1956; il 25 luglio, giorno della festa della Repubblica e del colpo di mano; il 17 dicembre, anniversario dell’autoimmolazione di Mohamed Bouazizi.
L’altro grande punto interrogativo rimane il rapporto della Corte dei conti sulle elezioni legislative di ottobre 2019. Se dovesse venire applicato, infatti, i partiti accusati di aver usufruito di finanziamenti illeciti nel 2019 risulterebbero ineleggibili. Tra questi ci sono Ennahda e Qalb Tounes, che occupavano la maggioranza dei seggi nel Parlamento sospeso il 25 luglio.
Fin dai giorni della svolta autoritaria, i media locali includono nei sondaggi un “hizb Kais Saied”, ovvero un potenziale “partito di Kais Saied”, che però, per ora, non esiste. A contendersi la percentuale più alta delle intenzioni di voto, insieme al potenziale partito di Kais Saied (al 20,8 per cento secondo l’ultimo sondaggio del 15 dicembre), c’è il Partito Desturiano Libero di Abir Moussi (36,2 per cento). Moussi è l’avvocatessa che ha difeso in tribunale il partito di Ben Ali nel tentativo di impedirne la dissoluzione nel 2011 e da anni nega l’esistenza della rivoluzione tunisina, che chiama colpo di stato. Dopo un inabituale silenzio mediatico, è tornata alla carica nelle ultime settimane, rilasciando interviste e dichiarazioni ai media locali e organizzando comizi nella capitale. Che la campagna elettorale per le legislative del 2022 sia già iniziata lo provano anche gli striscioni apparsi durante le manifestazioni contro Kais Saied, organizzate dai partiti d’ispirazione islamica Ennahda e al Karama e dal gruppo “Cittadini contro il colpo di stato”, guidato da un altro costituzionalista, Jawhar Ben Mbarek. Ben Mbarek è stato uno dei consiglieri del premier Elyes Fekhfekh, nominato insieme al suo governo tecnico proprio da Kais Saied a febbraio 2020, poi costretto alle dimissioni per conflitto di interessi nell’ambito degli appalti per la gestione dei rifiuti. Anche se il suo movimento “contro il colpo di stato” sembra rispondere a logiche di rivalsa interne più che a una reale volontà popolare, tra le fila dei suoi (pochi, per ora) seguaci si evocava la partecipazione a elezioni legislative prima ancora che queste venissero annunciate dal presidente.
Eppure, anche in nome del fatto che non si sa ancora con quale legge elettorale si andrà al voto, le prossime elezioni potrebbero non assomigliare alle precedenti. Fino al 13 dicembre, infatti, il progetto politico di Kais Saied prevedeva la formazione di comitati popolari eletti localmente, indipendenti dai partiti. Il presidente potrebbe quindi non aver abbandonato l’idea di attuare il suo progetto politico di decentramento (c’è chi ipotizza infatti una possibile riorganizzazione delle circoscrizioni elettorali). Se il Parlamento dovesse essere composto da rappresentanti dei comitati popolari, Saied non avrebbe nemmeno bisogno di formare un partito e l’Assemblea dei rappresentanti del popolo dipenderebbe solo da lui. Questa misura – che a molti ricorda il progetto della jamahiriya libica di Gheddafi – ha affascinato i suoi sostenitori. I seguaci di Kais Saied, infatti, rifiutano il sistema dei partiti in nome dei “valori della rivoluzione”, cavalcati dal presidente.
Le rivendicazioni a sfondo economico e sociale che hanno portato in piazza migliaia di cittadini nel 2011 non sono state tradotte in decisioni concrete, e il movimento che ha portato alla caduta di Ben Ali non si è mai organizzato in partito, rimanendo tagliato fuori dall’arena politica. In più, negli ultimi dieci anni si sono moltiplicati gli scandali per corruzione e clientelismo legati ai partiti al potere, rigettati dalla popolazione con il voto antisistema del 2019, anno in cui l’ex professore di diritto si è imposto come presidente del paese. Il sentimento di esclusione accomuna ancora oggi le zone più povere, che continuano a pretendere politiche per la riduzione delle disuguaglianze economiche, sociali e territoriali. La Tunisia rimane un paese spaccato in due tra le regioni della costa, quelle dell’élite economica urbana, e periferie e regioni del centro-sud, bacino della manodopera a basso costo e della disoccupazione.
Proprio in questa richiesta di maggiore rappresentanza affondano le radici delle centinaia di proteste che, nel corso degli ultimi dieci anni, hanno continuato a paralizzare il paese durante i mesi invernali. Dal 2017, però, sono le modalità di manifestare ad esser cambiate: vengono bloccate le stazioni di pompaggio del petrolio, del gas, dell’acqua o la produzione di beni di prima necessità. Ad inaugurare questa forma radicale di protesta è stato il sit-in di el Kamour, nella regione di Tataouine, dove la disoccupazione supera da anni il 30 per cento. Dal 2017, gli operai lasciati a casa dai colossi petroliferi bloccano le stazioni di pompaggio in mezzo al deserto. Il movimento di el Kamour chiede al potere centrale nuove riforme per l’accesso al mercato del lavoro nel sud della Tunisia, ma soprattutto che la regione possa recuperare il 20 per cento delle entrate derivanti da gas e petrolio. Una protesta lontana, poco raccontata, che riguarda da vicino l’Italia: da questa regione passa infatti il gasdotto che rifornisce l’Italia dall’Algeria e parte delle stazioni di pompaggio bloccate dipendono ancora dal colosso italiano Eni. A fine novembre di quest’anno, il sit-in di el Kamour ha chiesto alla presidenza di intervenire con nuove misure sociali, promettendo in caso contrario di tornare a bloccare le stazioni di gas e petrolio.
Ma quest’anno, a mettere in difficoltà Saied puntando il dito contro lacune e mancanze del suo progetto di decentramento è stato un altro movimento cittadino, nato nel 2018 e tornato ad alzare la voce a metà novembre durante i giorni della Cop26. Si tratta del collettivo “manish msab” – “noi non siamo una discarica” in dialetto tunisino – che chiede la chiusura dell’immensa discarica installata da Ben Ali a pochi passi da una cittadina rurale del sud-est del paese, Agareb. La discarica a cielo aperto di Agareb, ormai simbolo della malagestione dei rifiuti in Tunisia, raccoglie i rifiuti urbani provenienti da Sfax, polo industriale del paese. Inaugurata sotto Ben Ali nel 2008, questa discarica statale gestita a Tunisi dall’Agenzia per la gestione dei rifiuti e affidata a un’impresa italo-tunisina avrebbe dovuto essere chiusa nel 2013. Da allora, però, lo stato continua ad utilizzarla anche se satura. I cittadini di Agareb non aprono più le finestre delle loro abitazioni a causa dei forti odori, e i malati aumentano di anno in anno, raccontano per le strade. Il movimento “manish msab” impugna una decisione del tribunale locale e, con il sostegno della municipalità, si rivolge oggi alla presidenza pretendendo la chiusura definitiva della discarica e la bonifica della zona. “Il contratto stipulato tra il ministero dell’Ambiente e i gestori della discarica, però, sembra pesare più del potere politico”, spiega Sami Bahri, a capo del movimento di protesta, che accusa Saied di tradire i movimenti locali e ubbidire alle logiche dell’issaba, il “sistema corrotto”.
All’appello dei cittadini di Agareb per un’aria più respirabile si è unita buona parte della società civile tunisina. Secondo l’associazione Forum tunisino per i diritti economici e sociali, “l’interesse pubblico deve prevalere”. Alle richieste del movimento “manish msab” fanno ormai eco quelle di diverse città sopraffatte dal problema dello smaltimento dei rifiuti urbani, né valorizzati né riciclati, ma semplicemente accumulati in immense discariche a cielo aperto, o sempre più spesso bruciati per strada. Intorno alla questione dei rifiuti – tornata sulle prime pagine dei giornali appena qualche mese dopo lo scandalo dei rifiuti italiani esportati illegalmente in Tunisia e mai tornati indietro – si è costituito un nuovo movimento di contestazione che unisce rivendicazioni sociali e ambientali e punta il dito contro il sistema clientelare.
Proprio in queste aree marginali il presidente tunisino ha raccolto i voti di due anni fa. Eppure, alle promesse di un ripensamento delle politiche statali in ottica locale, sono seguite in questo ultimo anno poche riforme, tutte nella direzione opposta. Il ministero delle Collettività locali, a cui facevano riferimento i ventiquattro governatorati che compongono la Tunisia, a ottobre è stato accorpato a quello dell’Interno. I nuovi rappresentanti di regioni e comuni, sostituiti uno a uno da Kais Saied, devono ormai fare riferimento all’ex sede del potere di Polizia sotto Ben Ali, che torna a giocare un ruolo centrale. Non è un caso se, tra i pochi ministri rimasti in carica durante la fase di transizione precedente la nomina del governo attuale di Najla Bouden Romdhane, c’è proprio quello dell’Interno. L’unico, negli ultimi dieci anni, ad aver visto il proprio budget aumentare notevolmente in nome della lotta al terrorismo. Le casse restano in rosso, invece, quando si tratta di trovare i finanziamenti destinati agli ammortizzatori sociali, alla sanità, al trasporto pubblico, all’istruzione.
“Questo ha portato a una rabbia crescente delle classi più svantaggiate, perché lo stato c’è solo quando si tratta di attuare misure repressive”, fa notare il ricercatore Mohamed Haddad nel suo rapporto sulla cartografia del debito pubblico tunisino, pubblicato per la fondazione tedesca Heinrich Böll Stiftung. L’assenza di politiche statali efficaci e il margine di intervento inesistente del potere politico sono diventati evidenti all’opinione pubblica durante i mesi estivi – proprio quelli del colpo di mano – quando la quarta ondata della pandemia da Covid-19 si è abbattuta con violenza sul paese nordafricano. A luglio, la Tunisia ha addirittura raggiunto il triste record del più alto tasso di mortalità per numero di abitanti sul continente africano.
Se quest’anno la politica ha ancora rimandato riforme sociali sempre più necessarie è perché mancano i fondi. Il deficit di bilancio della Tunisia pesa ormai 9,7 miliardi di dinari, 2,9 miliardi di euro, si legge nell’ultima versione della legge di bilancio del 2021. Delle discussioni con il Fondo monetario internazionale non c’è più traccia. A maggio, l’ex governo di Hichem Mechichi licenziato da Kais Saied aveva intrapreso le negoziazioni per ottenere una nuova tranche di finanziamenti del valore totale di 3,3 miliardi di euro. Un compito non semplice dopo che l’ultima tranche di aiuti, risalente al 2016, è stata sospesa perché mancavano le riforme politiche promesse. Tappare il buco del deficit grazie ai fondi del Fmi, però, ha un costo politico che Kais Saied non può permettersi ora: nuovi tagli ai salari e la fine dei prezzi agevolati di beni di prima necessità grazie alle sovvenzioni statali. Così, per chiudere il bilancio 2021, il governo Bouden è stato costretto a ricorrere a “bricolage tecnici” che porteranno inevitabilmente alla crescita dell’inflazione (oggi al 6,5 per cento), spiega il ricercatore tunisino Fadil Aliriza. Appena entrata in carica, a fine ottobre, la premier Najla Bouden volava a Riad per tentare di negoziare altri fondi da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.
Lo stato fatica ormai a trovare addirittura i finanziamenti necessari per pagare i dipendenti pubblici: a inizio dicembre, i lavoratori delle Ferrovie dello stato hanno scioperato una settimana prima di riuscire ad ottenere il versamento dello stipendio di novembre. La Tunisia continua a indebitarsi per pagare i propri debiti mentre attende ancora un piano di riforme economiche a lungo termine. Come scrive nel suo ultimo articolo Hatem Nafti, l’autore del saggio De la révolution à la restauration, où va la Tunisie? (Dalla rivoluzione alla restaurazione, dove va la Tunisia?, Riveneuve 2019), “il capo di stato ha annunciato un nuovo calendario politico. Ma esiste un divario significativo tra il suo discorso volontaristico e gli atti, che devono fare i conti con la realtà”.