La guerra tech tra America e Cina
Dati, innovazione, spionaggio. La Cina è una potenza dell'intelligenza artificiale. Ma l'arma segreta dell'America si chiama democrazia
“Anche se l’avanzamento dell’intelligenza artificiale è inevitabile, la sua destinazione finale non lo è”, scrivono Henry Kissinger, Eric Schmidt e Daniel Huttenlocher in un nuovo libro di cui si è discusso molto nell’ultimo mese, “The Age of AI - And Our Human Future”
L’ultimo colosso cinese a essere finito nella lista nera dell’America si chiama SenseTime, una delle aziende di intelligenza artificiale più famose del mondo. Fondata nel 2014 a Hong Kong, SenseTime era pronta al suo debutto in Borsa, con un’offerta pubblica iniziale da 767 milioni di dollari, ma l’altro ieri è stata costretta a rimandare la quotazione “considerato il potenziale impatto” della decisione del Tesoro americano sugli investimenti.
Il 10 dicembre scorso, nella giornata internazionale dei Diritti umani e nel giorno conclusivo del Summit sulla democrazia voluto dal presidente Joe Biden, il governo di Washington ha deciso di proibire alle aziende americane di fare affari con SenseTime: il motivo è il suo coinvolgimento nello sviluppo di tecnologie che Pechino sta mettendo in uso nella repressione contro le minoranze religiose ed etniche nella regione autonoma dello Xinjinag. Già il 4 giugno Biden aveva firmato un ordine esecutivo – in perfetta continuità con l’Amministrazione Trump – nel quale vietava alle aziende americane di fare affari con quasi sessanta specifiche aziende cinesi, tra cui il colosso delle telecomunicazioni Huawei, la Semiconductor Manufacturing International Corporation, gigante dei semiconduttori vitali per il comparto tech cinese, la videosorveglianza di Hikvision. In base all’ordine esecutivo le compagnie statunitensi non possono eseguire “investimenti diretti sia in titoli di debito sia azionari” in quelle aziende cinesi, e non possono nemmeno investire in fondi che abbiano i titoli cinesi nei loro portafogli. La Casa Bianca aveva spiegato di voler vietare, “in modo mirato”, gli investimenti statunitensi in società cinesi che minano la sicurezza o i valori democratici degli Stati Uniti e dei suoi alleati.
Non tutti sono felici né fanno finta di non vedere una certa contraddizione nei continui provvedimenti americani per mettere in sicurezza la propria tecnologia dalla minaccia di quella cinese. Un repubblicano americano, molto vicino al dipartimento di stato, durante una conversazione informale con il Foglio ha usato un’espressione molto efficace: “La Cina è un problema ben diverso dall’Unione sovietica della Guerra fredda, perché con Mosca eravamo sicuri del nostro sistema, eravamo pronti a tutto pur di difenderlo. Pechino invece ci costringe a interrogarci e a mettere in discussione i nostri stessi princìpi”. Il libero mercato, la globalizzazione, l’apertura al resto del mondo pesano meno della sicurezza nazionale, del rischio di furti di proprietà intellettuale, di un eventuale sorpasso da parte della Cina nel settore tecnologico? E qual è il confine dell’applicazione delle nuove tecnologie, magari nate da aziende private e per applicazioni civili, nel campo della Difesa e del controllo sociale? Le risposte a queste domande sono ben più complicate di quanto si possa immaginare. E l’argomento più insidioso, quello pieno di conseguenze sul piano geopolitico, riguarda l’intelligenza artificiale, non a caso il settore di ricerca principale di colossi tech come SenseTime, che l’America accusa di lavorare “nel sistema dell’industria militare” cinese.
“Anche se l’avanzamento dell’intelligenza artificiale è inevitabile, la sua destinazione finale non lo è”, scrivono Henry Kissinger, Eric Schmidt e Daniel Huttenlocher in un nuovo libro di cui si è discusso molto nell’ultimo mese, “The Age of AI - And Our Human Future” (Little, Brown and Company, 2021). Il primo aspetto interessante del libro sono gli autori: l’ex segretario di stato più famoso del mondo, l’uomo considerato l’artefice dell’avvicinamento tra America e Cina negli anni Settanta, insieme con l’ex storico presidente di Google e uno degli accademici e scienziati informatici più famosi del mondo. Tre personalità che in teoria vengono da mondi diversi, ma non quando si parla di intelligenza artificiale. Perché alla base di tutto c’è la politica e il nostro sistema sociale: l’algoritmo può essere politico, scrivono gli autori, e lo abbiamo visto nel modo in cui i social network, per esempio, hanno influenzato la polarizzazione dell’opinione pubblica degli ultimi anni.
“L’intelligenza artificiale decide sempre di più che cosa è importante e che cosa è vero, e i risultati non sono incoraggianti per la salute della democrazia”, ha scritto il politologo americano Joseph Nye su Project Syndicate. Allo stesso tempo, l’intelligenza artificiale è fondamentale per le nuove scoperte scientifiche, e nelle sue applicazioni nel campo della medicina (l’esempio di scuola è quello del nuovo antibiotico, l’alicina, scoperto lo scorso anno dal Mit attraverso un modello di deep learning). Questo però non elimina la questione etica che si cela dietro all’integrazione della vita quotidiana con la tecnologia: chi decide davvero? Di chi è la responsabilità? Le automobili a guida autonoma ci hanno messo spesso, negli ultimi anni, davanti a questo tipo di domande.
E così gli autori arrivano alla vera questione che influenza la competizione tra America e Cina, la nuova corsa agli armamenti che è diventata una corsa tecnologica. Un capitolo fondamentale del libro “The Age of Ai” è dedicato infatti alla Difesa, all’applicazione dell’intelligenza artificiale nel campo bellico. Per l’uomo sarà praticamente impossibile anticipare le decisioni di un modello di intelligenza artificiale con apprendimento automatico, e questo renderà gli eventuali conflitti imprevedibili. Alle Nazioni Unite c’è già una proposta per vietare l’utilizzo di armi autonome, cioè senza il diretto controllo dell’uomo, ma la possibilità che la tecnologia diventi una nuova corsa all’atomica è molto alta.
La scorsa estate, la Cina ha testato un missile ipersonico che ha fatto un giro attorno alla terra prima di mancare il bersaglio di pochissimo, a una velocità cinque volte quella del suono. La notizia è stata una sveglia improvvisa per chi segue le evoluzioni dei programmi di Difesa tradizionali.
Li chiamano “momenti Sputnik”, un riferimento al primo lancio di un satellite artificiale da parte dell’Unione Sovietica che colse l’America di sorpresa: avvengono quando una grande potenza mostra al mondo una tecnologia che l’altra – la rivale, la concorrente – sta ancora cercando di perfezionare. Negli ultimi vent’anni ce ne sono stati diversi, sia per l’America sia per la Cina. Ma non tutti riguardano gli aspetti più vistosi della Difesa, grandi missili superveloci, satelliti e arsenali nucleari. A volte basta un computer.
Il più famoso “momento Sputnik” per la Cina è considerato quello del 2016, quando Lee Sedol, sudcoreano maestro di Go, il gioco di strategia da tavolo più popolare e tradizionale dell’Asia orientale, venne battuto da una macchina. AlphaGo, per l’esattezza, inventata dalla sussidiaria di Google DeepMind e all’epoca guidata proprio da Eric Schmidt. Cinque anni fa, quella partita a Go ci aveva fatto scoprire che si poteva fare l’impossibile, e cioè insegnare alle macchine, agli algoritmi, a imparare anche un gioco da tavolo di strategia che sembrava avere troppo a che fare con il mistero dell’intelligenza umana. E invece. Secondo lo scienziato Kai-Fu Lee, autore di uno dei libri più famosi sul tema dell’intelligenza artificiale uscito nel 2018, “Ai Superpowers”, la partita a Go macchina-contro-maestro suggerì alla Cina un’accelerazione nel settore. Non a caso, un anno dopo quell’evento, il Consiglio di stato cinese pubblicò un documento chiamato “Piano di sviluppo dell’intelligenza artificiale di nuova generazione” nel quale il paese si dava come obiettivo il 2030 per trasformare l’Ai in una tecnologia made in China. Il governo di Pechino ha messo a disposizione dell’industria almeno 150 miliardi di dollari, e durante il Diciannovesimo Congresso nazionale del Partito – che è il momento più importante della liturgia politica cinese, si tiene ogni cinque anni, e l’ultimo c’è stato nel 2017 – il presidente Xi Jinping ha rinnovato la priorità del paese di trasformarsi in una superpotenza tech: “Dobbiamo accelerare la costruzione di una Cina forte, con una produzione avanzata, creando una profonda integrazione tra l’economia reale e le tecnologie avanzate tra cui internet, i big data e l’intelligenza artificiale”. Un obiettivo da allora ripetuto in ogni discorso pubblico da Xi: anche a ottobre, durante la riunione dei funzionari del Partito comunista cinese, il leader ha detto che “internet, i big data, il cloud, l’intelligenza artificiale e le altre tecnologie devono accelerare il loro sviluppo ed essere integrate all’intera economia e alla società”, per trasformarsi nel traino dell’economia digitale “e contribuire alla rivitalizzazione della nazione” – un’espressione fondamentale nel Sogno della nuova Cina di Xi.
Con quella celebre partita a Go, cinque anni fa, l’occidente tecnologico, e soprattutto la Silicon Valley, si convinse ancora di più che il sistema cinese fosse in grado soltanto di produrre e di copiare, ma che le grandi scoperte tecnologiche sarebbero state ancora a lungo una eccezione del sistema occidentale. Nel frattempo, la Cina è diventata il paese con più brevetti nel campo dell’intelligenza artificiale e più pubblicazioni scientifiche nello stesso settore di ricerca. La consapevolezza della perdita di questo primato è arrivata a essere documentata anche nell’ultimo report della Commissione per la sicurezza nazionale americana sull’intelligenza artificiale: “La Cina è organizzata, dotata di risorse e determinata a vincere la competizione tecnologica”, si legge. “L’intelligenza artificiale è fondamentale per l’espansione globale della Cina, per il suo potere economico e militare e per conservare la stabilità interna”. Il governo cinese gode di un vantaggio rispetto agli altri: “A partire dal 2017, ha stabilito obiettivi e strategie legati a tempistiche specifiche con risorse supportate da una leadership che si è impegnata per guidare il mondo nell’Ai entro il 2030. La Cina sta eseguendo un piano sistematico, diretto dal governo centrale, per tirare fuori le conoscenze sull’Ai dall’estero, attraverso lo spionaggio, il reclutamento, il trasferimento tecnologico e altri investimenti. Ha piani ambiziosi per costruire e formare una nuova generazione di ingegneri specializzati nei suoi nuovi centri di ricerca. Sostiene i suoi ‘campioni nazionali’ (tra cui Huawei, Baidu, Alibaba, Tencent, iFlytek e SenseTime) per conquistare i mercati all’estero e guidare lo sviluppo delle tecnologie di intelligenza artificiale a livello domestico, in base alle priorità statali che aiutano i programmi militari e di sicurezza attraverso la fusione militare-civile. Finanzia enormi progetti di infrastrutture digitali in diversi continenti. La Cina ha sviluppato una strategia di proprietà intellettuale e sta cercando di stabilire standard tecnici globali per lo sviluppo dell’Ai. Le sue leggi rendono quasi impossibile per un’azienda in Cina proteggere i propri dati dalle autorità”. Anche in quest’ottica va vista la “riorganizzazione” dell’ecosistema tecnologico cinese dell’ultimo anno. Una repressione normativa a tutto campo: “Il presidente Xi Jinping sta riscrivendo le regole su come funziona l’economia e come vengono trattati i dati che le aziende raccolgono”, ha scritto il mese scorso sull’Economist Don Weinland, che si occupa di business cinese. “Ciò ha significato tirare giù dall’olimpo alcuni dei magnati più importanti del paese, come Jack Ma, il fondatore di Alibaba, e costringere altri gruppi, come DiDi Global, gigante del trasporto, alla sottomissione. La velocità delle riforme indica che le aziende di vari settori che vanno dai prestiti fintech all’e-commerce, dalle auto a guida autonoma ai social network fino ai videogiochi devono ripensare il modo in cui fanno soldi e gestiscono i dati”. Lo chiamano il “grande reset” del settore, scrive Weinland, che inevitabilmente porterà a un calo del valore dei giganti tecnologici cinesi – sempre meno andranno a quotarsi in Borsa a New York, sempre di più sceglieranno la nuova Hong Kong controllata direttamente da Pechino, come SenseTime – che si adegueranno “a una nuova realtà di un controllo più stretto del governo”.
Avere il controllo delle società tech significa avere un’influenza determinante sull’innovazione tecnologica, sorvegliare con efficacia la popolazione non solo nei suoi movimenti ma anche nella sua formazione, in ciò che guarda alla tv e sullo smartphone, ma soprattutto significa libero accesso ai dati. “I dati sono il petrolio del 21° secolo, la risorsa indispensabile che alimenterà algoritmi di intelligenza artificiale, la forza economica e il potere nazionale”, hanno scritto sul New York Times l’ex viceconsigliere per la Sicurezza nazionale dell’Amministrazione Trump, Matt Pottinger, e l’ex viceassistente al segretario di stato per l’Asia orientale David Feith. “La fonte di questi dati siamo tutti noi: le nostre cartelle cliniche e le nostre sequenze genetiche, le nostre abitudini online, i flussi della catena di approvvigionamento delle nostre attività, i terabyte di immagini nei nostri telefoni, droni e auto a guida autonoma. La competizione per l’influenza globale nel 21° secolo richiederà la protezione e lo sfruttamento di questi dati per ottenere vantaggi commerciali, tecnologici e militari. Finora, la Cina sta vincendo e l’occidente è a malapena coinvolto”. Per Pottinger e Feith, mentre guardavamo allo sviluppo della tecnologia più visibile cinese, quella che riguarda i missili e i satelliti, ci siamo persi l’enorme sforzo che Pechino ha fatto per conquistare il primato nella raccolta e l’analisi dei dati. La Cina ha libero accesso ai dati delle sue aziende e a quelli di paesi stranieri, attraverso vari meccanismi, spiegano i due analisti, ma non fa accedere nessuno ai suoi. E’ così che ha costruito il suo vantaggio strategico: la sua intelligenza artificiale ha più dati di chiunque altro, e in questo modo continua a imparare. Come riconoscere un dissidente che si muove all’interno dei confini nazionali; come capire quando una azienda, per esempio italiana, è in difficoltà economica e si può acquisire; come sorprendere la comunità internazionale nel caso di un’invasione di Taiwan; quali settori strategici di un paese nemico sono da boicottare per costringerlo alla resa politica.
Ancora una volta, si torna alla domanda fondamentale di Kissinger, Schmidt e Huttenlocher: l’intelligenza artificiale non fa paura quando è sfruttata in un mondo con uno stato di diritto, secondo i perimetri indicati dalla legge. In un sistema democratico è legittimo porre delle questioni sulla raccolta dei dati da parte delle aziende private o statali, sull’applicazione della tecnologia. Ma la battaglia più importante riguarda, come sempre, la difesa della democrazia.
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