Da Gamestop a Nft, il 2021 è stato l'anno della meme economy
"Quando abbiamo smesso di capire il mondo?" Tra il febbraio e il marzo del 2021, si direbbe, quello è stato il punto di non ritorno socio-cultural-finanziario
Gamestop è una catena di negozi specializzati in videogiochi attiva in tutto il mondo (anche in Italia). Nata nel 1984 dall’idea di due laureati della Harvard Business School, il suo primo nome fu “Babbage”, in onore di Charles Babbage, il filosofo e scienziato inglese che nell’Ottocento teorizzò il concetto di computer. Dopo anni di crescita, il declino di Gamestop è cominciato attorno al 2016, complice lo stravolgimento del mercato causato da piattaforme digitali come Steam, Xbox Live e Playstation Network. Sempre meno persone si recano in un negozio fisico per acquistare beni materiali, preferendo l’online: succede anche in questo settore.
A guardare l’andamento delle azioni di Gamestop nel corso degli anni questa crisi è piuttosto visibile: dal valore di 54,88 dollari per azione raggiunto nell’ottobre del 2013 la curva flette fino ai 12 dollari dell’ottobre del 2020. Ciò nonostante, è improbabile che un osservatore noti questo calo, perché ad attirare l’attenzione sarebbe senz’altro la crescita esponenziale avvenuta a partire dal gennaio 2021, quando il titolo di Gamestop volò fino ai 347 dollari per azione. Una crescita del 2791 per cento, in pochi giorni, concentrata perlopiù a gennaio, mese tradizionalmente lento.
Cosa era successo? I Gamestop di mezzo mondo avevano scoperto accidentalmente dei pozzi petroliferi sotto ai loro pavimenti? Un nuovo amministratore delegato aveva delineato un business plan davvero convincente? Non proprio: era successo che un gruppo di utenti del sito Reddit – un social network dedicato alla condivisione e discussione di immagini, link, temi – avevano deciso di iniziare il 2021 mettendo sotto scacco Wall Street.
Occupy
Reddit si organizza in subreddit, delle stanze a tema in cui gli utenti possono discutere delle loro passioni. Pensate a un argomento, anche il più strano: molto probabilmente c’è almeno un subreddit ad esso dedicato. “Wall Street Bets” è uno di questi subreddit, nato nel 2012 e diventato punto di riferimento per una nuova leva di investitori amatoriali, giovani, più simili a smanettoni amanti dei meme che al personaggio di Leonardo Di Caprio in “The Wolf of Wall Street”: “Come se 4chan avesse un terminal di Bloomberg” recita lo slogan di questo subreddit (4chan è un forum che ha fatto la storia della cultura digitale: qui sono nati molti meme e l’organizzazione Anonymous, per dire).
Insomma, basta tecnicismi e snobberie tipici delle torri di cristallo di Manhattan; sì, invece, a un visione del mondo e della finanza ironica, cinica – edgy insomma – influenzata dalla disillusione post-crisi del 2008 (e da Bitcoin, ma ci torniamo). L’affaire Gamestop si basava su uno short squeeze, una tecnica di mercato che a sua volta si basa sullo shorting. Partiamo quindi da qui: come spiega il sito Borsa Italia, “Lo short selling è un'operazione finanziaria che consiste nella vendita di strumenti finanziari non posseduti con successivo riacquisto”. Si effettua di solito quando si ritiene che il prezzo di uno strumento finanziario sia destinato a calare, in modo da riacquistarlo a prezzo inferiore in futuro. Insomma, si tratta di un’operazione ad alto rischio che si fa solo su aziende in crisi. Se portata avanti da abbastanza investitori e hedge funds, lo shorting può diventare una sentenza capitale per il titolo finanziario interessato. Da queste parti, infatti, si controlla sempre chi sta “shortando” qualcosa: quando Warren Buffett comincia a shortare il titolo ***, spesso gli altri seguono, e *** non se la passa di certo bene. E' la tempesta perfetta, insomma.
All’inizio del 2021 Gamestop era preda di questi flutti, di uno shorting indiscriminato che stava mettendo in serio pericolo l’azienda, vanificandone qualunque tentativo di rilancio. Così, la community di WallStreetBets (WSB) si unì, decidendo di comprare – e fare comprare – titoli Gamestop, cosa che ormai si poteva fare per pochi dollari. Più ne compravano, più il valore del titolo cresceva; più il valore di Gamestop aumentata, più gli shorter perdevano soldi. Qualcuno aveva capito come hackerare la tempesta perfetta, facendo piovere al contrario.
La componente populista di questo tipo movimenti non va di certo sottovalutata: le leve del sistema, da sempre controllate dalle famigerate élite, ora erano cadute in mano al popolo, o meglio, a una manciata di utenti in svariati server di Discord, la chat dove i carbonari di WBS si radunavano. Questa rivoluzione “dal basso” nasceva nei social network per trovare base stabile su Robinhood, applicazione che ha reso l’investimento in borsa a portata di smartphone, livellando molte delle barriere all’entrata della finanza, con conseguenze profonde. A quasi dieci anni dal movimento Occupy Wall Street, il popolo ce l’aveva fatta: aveva conquistato – occupato – il cuore della finanza. Ne aveva approfittato per costruire un sistema migliore, prendendo la Bastiglia e aprendo una nuova era di pace e uguaglianza? A giudicare da come il 2021 è proseguito, si direbbe di no.
Siamo solo a febbraio, del resto. In quei stessi giorni, mentre gli hedge funds sanguinavano, sul versante del crypto nasceva una stella. Dogecoin è una criptovaluta, come Bitcoin o Ethereum, nata per scherzo nel 2013 proprio con l’intento di parodiare il settore. I suoi creatori, Billy Markus e Jackson Palmer, volevano prendere in giro la bolla del crypto e pensarono di prendere un meme in voga all’epoca (quello di Doge, un cane dall’espressione sorpresa) facendone una valuta. La burla era tutta qui: “E' tutto talmente folle che anche questo potrebbe finire per valere qualcosa”. L’anno dopo Dogecoin aveva già una capitalizzazione di mercato di 60 milioni di dollari. Nel maggio del 2021, alla fine di una crescita folle iniziata proprio a febbraio, dogecoin arrivò a 85 miliardi di dollari. A trainare questa valuta inutile che non faceva segreto della sua inutilità, una figura essenziale per capire la logica di questa finanza psichedelica: Elon Musk.
Ceo di Tesla, patron di SpaceX, uomo più ricco del mondo: Musk è tante cose. Ma è soprattutto proprietario di un profilo Twitter da 67 milioni di follower (più del doppio dell’attuale Presidente degli Stati Uniti) in grado di influenzare profondamente e velocemente il mercato a colpi di tweet. Sempre nel febbraio 2021, mese piuttosto intenso, la sua Tesla annunciò di aver comprato 1,5 miliardi di dollari in Bitcoin, e di avere intenzione di iniziare ad accettarli come metodo di pagamento ufficiale. Era da qualche settimana che Musk giocava col crypto, postando tweet amichevoli e persino aggiungendo l’hashtag #bitcoin alla sua bio (cosa che l’ormai ex ceo di Twitter Jack Dorsey aveva fatto da tempo). Tra un tweet e l’altro, il valore della criptovaluta aumentò del 20 per cento, dopo un inizio d’anno particolarmente pigro.
Fu l’inizio di un tira e molla che continua tuttora – e chissà quando finirà. A maggio Musk decise di abbandonare Bitcoin, con la scusa del loro impatto ambientale: siccome il mining, ovvero il procedimento informatico con cui si coniano nuove cripto-monete, inquina quanto l’intera Irlanda, e produce tonnellate di rifiuti ed e-waste non sempre riciclabile (né riciclato), il ceo si defilò. Con la promessa di tornare qualora si trovassero soluzioni green, certo (curiosità: un singolo lancio di un razzo di SpaceX equivale alle emissioni prodotte da 278 persone nell’arco della loro intera vita). Nelle ultime settimane sembra essere tornato alla carica, facendo lo stesso annuncio.
Token
Questa storia è anche una storia di grafici, di curve che procedono piatte, dormienti come agenti segreti, per poi impennare destabilizzando interi settori economici. Basta andare su Google Trends, il servizio con cui è possibile vedere quanto una determinata parola è stata cercata nel corso degli anni, per capire l’impatto avuto da un altro dei fattori che ha caratterizzato il 2021. Questa volta è una sigla, Nft, che sta per “Non-Fungible Token”. Anche in questo caso, la curva degli Nft è sostanzialmente una retta bassa, attorno allo zero, per anni e anni; a gennaio scorso, ecco il suo risveglio; da febbraio, le ricerche relative agli Nft sono salite, portando questi “token non fungibili” dalle retrovie del dibattito sulla blockchain al centro della conversazione globale.
Tutto è iniziato a marzo, quando l’artista statunitense Mike Winkelmann, noto come Beeple, vendette un Nft per la cifra record di 69,3 milioni di dollari (ovviamente in Ethereum): un record per il neonato mondo della criptoarte ma anche per il mercato degli artisti viventi. L’opera in questione era Everydays: the First 5000 Days, il collage di cinquemila illustrazioni realizzate quotidianamente da Beeple nell’arco di diversi anni. Una grande tela da custodire in una galleria? Non proprio, perché, come il mondo scoprì presto, gli Nft sono in grado di generare valore (e tanto) dal nulla. Vignesh Sundaresan, l’investitore che si aggiudicò l’opera nell’asta organizzata da Christie’s, non entrò in possesso di nulla di fisico (del resto l’opera è digitale) ma solo del diritto di metterla in mostra. Non del suo copyright. Sundaresan decise “ovviamente” di esporla online, pardon, nel metaverso, altra parola che in quei mesi muoveva i primi importanti passi nel mondo degli investitori tecnologici e che avrebbe monopolizzato la conversazione negli ultimi mesi dell’anno.
Ci vollero poche settimane perché questi token – certificati che attestano la proprietà di qualcosa sulla blockchain – venissero applicati ai settori più disparati, con risultati ed effetti cangianti ma con la stessa capacità di creare fortune dal nulla. Dopo il mondo dell’arte, ecco quindi quello della moda e abbigliamento (negli ultimi giorni sia Adidas che Nike hanno fatto passi importanti in questa direzione), e poi i videogiochi. Ma anche la politica e le organizzazioni collettive come le Dao, piattaforme decentralizzate che hanno persino provato a comprarsi una copia della Costituzione Usa (non riuscendoci e finendo in un grottesco polverone, ma questa è un’altra storia). Comunque sia, giunti più o meno agli ultimi mesi dell’anno, è probabile che anche quel vostro amico o parente che non se ne intende di queste cose abbia nominato le tre letterine miracolose – Nft –, buzzword e grande promessa che ricorda quello che fu Bitcoin nell’inverno del 2016.
Senza criptovalute non ci sarebbero stati token, ovviamente. Per motivi tecnici, ovviamente, visto che si basano sulla blockchain. Ma anche perché Bitcoin prima ed esperimenti assurdi come dogecoin dopo hanno spalancato una finestra di cripto-opportunità in cui il valore delle cose “materiali” hanno smesso di avere senso; in un mondo digital-first, anche i patrimoni si fanno impalpabili. Di conseguenza, tutto, e sottolineiamo tutto, compreso i dogecoin, possono valere qualcosa. Secondo corollario: nell’esatto momento in cui una cosa del genere arriva a valere qualcosa, allora può valere qualsiasi cosa.
Ponzi
Arriviamo così al dicembre 2021, i giorni nostri. Nelle Filippine da qualche mese va fortissimo “Axie Infinity”, un gioco online che sembra l’unione tra un videogame di combattimenti e i Pokémon, dove gli utenti, per partecipare, devono acquistare un esserino, un mostriciattolo, da allenare, crescere e far combattere. Questo esserino, ca va sans dire, è un Nft, gli Axies. Uno di questi Axie, oggi, può valere una fortuna (la scarsità è alla base della crypto-economia), tanto che i fortunati che ne hanno comprati a bizzeffe quando ancora valevano una miseria, oggi si limitano ad affittarli a carissimo prezzo ai neofiti, i quali poi li usano per andare “live” su Twitch a giocare ad Axie Infinity nella speranza di fare soldi. È un business milionario. Secondo alcuni, è l’economia del futuro.
Secondo altri, invece, è uno schema Ponzi bello e buono. Basta leggere la definizione di Wikipedia di “Ponzi scheme” per sentire delle strane del mondo crypto: “un modello economico di vendita truffaldino ideato da Charles Ponzi (1882-1949), che promette forti guadagni ai primi investitori, a discapito di nuovi ‘investitori’, a loro volta vittime della truffa”. Meglio ripassarsela, questa frase, perché gli ultimi giorni del 2021 hanno visto la nascita di una discussione bizzarra (e che non ben sperare per la tenuta finanziaria dell’Occidente nell’immediato futuro). Eccolo, il dibattito di fine anno tra gli amanti del crypto, del metaverse e di quello che viene chiamato ormai Web3, la nuova frontiera del web post-blockchain: “E se lo schema Ponzi non fosse poi così male?”
Se lo è chiesto Dror Poleg, storico dell’economia recentemente crypto-pilled (convertitosi con furori messianici al crypto), che ha affidato al suo blog “un elogio dello schema Ponzi”, in cui si chiede: “E se ci fosse un modo di pagare milioni di persone per guardare un dato video nello stesso momento in modo da renderlo virale e fare abbastanza soldi per pagare quelle persone e magari di più?”. Secondo Poleg, un metodo c’è: basta creare uno smart contract – sempre basato sulla blockchain – per mandare token a “un numero illimitato di persone”, che verranno pagate quando avranno compiuto una determinata azione (guardare il video, in questo esempio). “Questo è, essenzialmente, uno schema piramidale”, nota l’autore del saggio. “Un Ponzi.” Ma questo Ponzi, conclude, “ha senso. E sarà il metodo di marketing dominante del prossimo decennio”.
“Quando abbiamo smesso di capire il mondo” recita il titolo di un saggio di Benjamín Labatut pubblicato da Adelphi proprio nel febbraio 2021, periodo in cui, se fossimo appassionati di cabale e coincidenze, potremmo a questo punto indicare come punto di non ritorno socio-cultural-finanziario. O meglio ancora, come risposta alla domanda stessa: “Quando abbiamo smesso di capire il mondo?” Tra il febbraio e il marzo del 2021, si direbbe. Tutto è cominciato lì e non è dato sapere come andrà a finire.