Dentro alla perversione di Maxwell e il suo traffico di corpi giovani per Epstein
Il verdetto emesso a New York condanna la sessantenne socialite britannica a un massimo di 65 anni dietro le sbarre, e rimette al centro delle riflessioni la portata moralmente illecita del ruolo e della condotta della Maxwell in qualità di partner in crime del pedofilo Jeffrey Epstein
"Perversione di giustizia” è il libro con cui la reporter del Miami Herald, Julie K. Brown, ha provocato l’inchiesta giudiziaria sulle malefatte sessuali della coppia Jeffrey Epstein-Ghislaine Maxwell, tenuta a bada per dieci anni da luminari della disinvoltura legale come Ken Starr e Alan Dershowitz. Altri tempi si direbbe – perfino un altro mondo, prima che l’intera questione della valenza giudiziaria dei comportamenti all’origine delle violenze sessuali divenisse terreno della massima guerra culturale americana nel Ventunesimo secolo. Il verdetto di colpevolezza emesso a New York dalla giuria del processo a Ghislaine Maxwell condanna la sessantenne socialite britannica a un massimo di 65 anni dietro le sbarre, secondo l’entità della pena che le verrà comminata dalla giudice Nathan, e rimette al centro delle riflessioni la questione della “perversione”, ovvero la portata moralmente illecita del ruolo e della condotta della Maxwell in qualità di partner in crime del pedofilo Jeffrey Epstein. Il tutto restando ben inteso che questo è stato, silenziosamente, anche un processo al concept sociale di “privilegio”, attributo del quale Maxwell ed Epstein, in modo diverso, sono stati la perfetta incarnazione anglosassone: soldi, potere, amicizie, jet set, lusso, cascami da masters of the universe come li chiamava Tom Wolfe, associati alla percezione di onnipotenza e alla delirante patente di dominio sessuale, previo compenso, su qualsiasi oggetto del desiderio.
L’impassibile Ghislaine si è vista addossare cinque dei sei capi d’imputazione – è rimasto al palo l’adescamento – uno solo dei quali, il traffico di minori a scopo sessuale, può costarle il resto della vita in prigione. “Ha venduto l’anima a Epstein e lo venerava come fosse Zeus. Sapeva che era un pervertito, ma la cosa non l’ha fatta desistere”, ha commentato un esperto di mondanità della Grande Mela, offrendo spunti per farsi un’idea riguardo al bizzarro rapporto d’interdipendenza tra le due figure.
Un uomo introverso, con diversi ingegni, soldi freschi, fame d’immoralità e vizio di collezionismo sessuale. Una donna prona alla sottomissione, con un’educazione di qualità, una stellare agenda di conoscenze, brillante, eccentrica, ma fedele a colui che aveva eletto a padrone. Per anni Ghislaine è stata la “madame” di Epstein, oltre che l’amante saltuaria e l’accompagnatrice da salotti. Maxwell serviva Epstein su due livelli: come passepartout per l’alta società e come procacciatrice di piaceri proibiti, trafficando coi corpi di giovanissime donne.
In cambio ne ricavava i quattrini per mantenere certi standard (nonostante il cognome, le sue disponibilità pre Epstein erano limitate) e forse un piacere irregolare che la spingeva ad allargare il proprio compasso morale. Una scalatrice sui generis, dotata dello charme per convincere un numero imprecisato di ragazzine a montare sul Lolita Express, l’aereo privato che le recapitava sul lettino da massaggi di Epstein, colui che opterà per la non discussione del caso suicidandosi alla vigilia del processo-gogna. Nelle mani della giustizia è rimasta Ghislaine – mediatrice, mezzana innamorata o pervertita partecipe? – colei che compensava le ragazze che, anche per anni, restavano agganciate a questo ménage assurdo e redditizio, alcune delle quali avrebbero infine vestito i panni delle accusatrici: al processo ne sono bastate quattro per raccontare come anche il tempo abbia giocato un ruolo in questa strana vicenda, per la reiterazione del reato e le dozzine di volte in cui le ragazze venivano convocate nelle magioni di Epstein.
Non è un caso che l’accusa abbia esposto come aggravanti la galleria di foto di Jeffrey e Ghislaine in pose affettuose. L’indicazione alla giuria era: memorizzate la complicità, condannate il legame spudoratamente esposto, rimuovete il dato romantico, ammesso ne sia esistito uno e procedete contro questa lega di pervertiti. La giuria si è convinta e ha condannato Ghislaine come esecutrice delle depravazioni di Jeffrey. Ci sarà un appello, la guerra non è finita, ma la sua storia è rivestita di vergogna, in un quadro di miserabile interesse. Del resto non è compito della giustizia scavare nel passato di Ghislaine, nel suo devastante rapporto con una figura paterna mostruosa, di cui può aver cercato un sostituto. Fino ad accettare i compromessi – troppi, inammissibili – che l’hanno condotta alla rovina (e nel frattempo sposando nel 2015 Scott Borgerson, un altro miliardario, 15 anni più giovane e capace di non farsi travolgere dallo scandalo, il quale ha più volte ribadito di avere ambizioni da presidente degli Stati Uniti). Così Ghislaine, a oggi, diventerebbe tecnicamente la first lady di questa nazione-Gomorra.