Che 2022 sarà per il rabbiosissimo Brasile di Bolsonaro
Si apre un anno elettorale annunciato da meme che fanno pensare solo alla guerra civile. Il presidente sfidato da Lula, entrambi alle prese con Moro. Tre uomini vendicativi e pronti a tutto, tranne a dare stabilità
Il nuovo anno ha in serbo per il Brasile una campagna elettorale spettacolare e piena di pericoli. Andrà in scena lo scontro tra titani con protagonisti Luiz Inácio Lula da Silva e il presidente uscente Jair Bolsonaro, e non sarà una competizione serena. Sui social si sprecano le gif e i meme che, con sapienti fotomontaggi, ritraggono i due nelle vesti di Alien vs Predator, Wolverine vs Hulk oppure Captain America vs Iron Man, questi ultimi si combattono in un fumetto e in un film della Marvel che – sinistro presagio – si chiama Civil War.
La tensione si intuisce facilmente guardando a come i super favoriti si pongono rispetto al prossimo appuntamento elettorale. Lula, che al momento è in testa nei sondaggi, vuole vincere anche per vendicare il colpo di stato che ritiene di aver subito (insieme alla sua erede Dilma Rousseff) tra il 2016 e il 2018, mentre Bolsonaro è pronto a farne uno suo. Il presidente ha promesso un altro 6 gennaio, un altro assalto al Congresso nel caso in cui dovesse uscire sconfitto dalle urne. Se accadesse, come Donald Trump, griderà ai brogli e inviterà i suoi sostenitori alla ribellione. E, come Donald Trump, il presidente brasiliano è pieno di fan con le armi e alcuni si sono organizzati in delle specie di milizie private come il gruppo “300 do Brasil”, che richiama il titolo di un film di culto molto violento. Delle tante, la frase più inquietante che ha detto ultimamente in proposito è stata: “Soltanto Dio può togliermi la presidenza”.
I parlamentari brasiliani – che conoscono a memoria le immagini dei loro colleghi americani terrorizzati e portati in fretta dagli agenti dei servizi segreti nella vicina base militare di Fort McNair a Washington – hanno già l’ansia. Il loro Congresso è una struttura moderna imponente ed elegante progettata dall’architetto Oscar Niemeyer. E’ formata da tre blocchi, un parallelepidedo sdraiato alla base e poi due porzioni di sfere posizionate sopra. Il tutto è un’interessante metafora. La prima mezza sfera è ricurva verso il basso, è una cupola: lì c’è il Senato e la posizione di chiusura simboleggia che quella è la sede in cui si riuniscono pochi saggi che per decidere hanno bisogno di isolarsi dal frastuono del mondo esterno e riflettere in tranquillità. L’altra mezza sfera è posizionata all’inverso – una cupola ribaltata – è proiettata verso l’esterno ed è messa così perché sotto c’è la Camera dei deputati, più affollata e caotica: deve ascoltare il popolo e raccogliere le istanze dei cittadini sul territorio. Già nel 2013 questo edificio aveva rischiato l’assalto.
Quello è stato il vero inizio di una complicata catena di eventi che, da un lato, porta all’impeachment dell’ex presidente Rousseff e all’arresto del leader del suo partito Lula. E, dall’altro, porta Bolsonaro al palazzo presidenziale. Il 2013 è stato l’anno di proteste violente contro l’establishment, c’entrava soprattutto la crisi economica e le manifestazioni non avevano ancora una direzione e un obiettivo politico preciso. Questi glieli ha dati poco dopo un giudice, Sergio Moro. Anche lui vuole correre alle presidenziali del 2022 e nel suo caso il modello non è un eccentrico e pericoloso ex presidente americano ma il magistrato italiano Antonio Di Pietro. Sergio Moro è quello che nel 2017 aveva condannato Lula, un anno dopo ci sarebbero state le presidenziali e anche all’epoca il leader del Partito dei lavoratori dominava i sondaggi mentre Bolsonaro era dato all’8 per cento. Sappiamo poi com’è andata a finire, il primo è stato squalificato dalla competizione mentre il secondo – una volta insediato come presidente della Repubblica – ha scelto Moro come ministro della Giustizia. Per questa vicenda, a marzo, la Corte Suprema brasiliana ha stabilito che Moro non era imparziale e quindi non era adatto a giudicare Lula nel momento in cui lo ha condannato. In generale, la Corte Suprema ha rivisto l’indagine e il processo e, per questioni formali (esattamente come la nostra Corte di Cassazione ha il compito di valutare il rispetto delle forme nei procedimenti che esamina), ha annullato le condanne di Lula consentendogli di correre nel 2022.
L’annullamento non significa che la “corruzione sistematica” – il fatto che le grandi aziende, una volta ottenuto un appalto, corrispondevano in automatico una percentuale ai partiti – non ci fosse. Ma, per esempio, che il giudice Moro non era imparziale tra accusa e difesa e anzi imponeva la strategia ai pubblici ministeri, suggeriva di massacrare Lula sui media e di orientare le testimonianze, senza dare troppa importanza a quelle contro esponenti di altri partiti per concentrarsi solo sulla magnifica preda: l’uomo più popolare e potente del Brasile.
E’ una storia vecchia ma serve a conoscere meglio i protagonisti che domineranno la scena nell’anno che verrà, perché – oltre alla dimensione politica – sarà una campagna elettorale tra uomini dalle biografie incrociate e ad altissimo tasso di rancore personale e desiderio di vendetta. Non solo per quanto riguarda lo scontro tra Lula e Moro e tra Lula e Bolsonaro. Anche Moro e Bolsonaro si odiano. Il primo ha tradito il secondo nel momento del bisogno – cioè quando il presidente brasiliano voleva rimuovere i vertici della polizia perché non gli davano una mano con le inchieste sui suoi figli – e si è dimesso in protesta. Ma l’esordio di Moro nella corsa alle presidenziali non ha prodotto il terremoto che lui sperava. Al contrario, ha scritto il Folha de S. Paulo: “Consolida la leadership di Lula nei sondaggi, mette in luce la debolezza politica dell’ex giudice e peggiora la posizione di Jair Bolsonaro”. Il presidente in carica che, ai blocchi di partenza, questa volta non gode di un’onda di eventi fortunati (per lui) di cui era facile approfittarsi dalla posizione di outsider populista che non aveva mai ricoperto incarichi di responsabilità e poteva proporsi come paladino della lotta alla corruzione, come ha fatto Bolsonaro nel 2018. Adesso è reduce da anni tragici: inchieste, condanne per crimini contro l’umanità, richieste di impeachment e una drammatica gestione della pandemia che ha pochi agguerritissimi sostenitori – come la comunità evangelica locale – ma un numero molto più alto di contestatori.
D’altro canto, questa volta Bolsonaro ha il potere, ha molti più soldi e ha i consiglieri di Donald Trump. Alcuni lo sono già andati a trovare per mettere a punto la strategia e l’ex portavoce di Trump, Jason Miller, è stato fermato e interrogato per tre ore dalla polizia all’aeroporto di Brasilia perché i funzionari locali temono che i due possano complottare qualcosa di pericoloso per il prima o il dopo elezioni. Era settembre e nella capitale brasiliana si teneva una convention di due giorni con vari consiglieri di Trump e suoi alleati da tutto il mondo per sostenere e consigliare Bolsonaro. La star più attesa era il figlio maggiore dell’ex presidente, Don Jr, mentre l’applauso più lungo è andato a Charlie Gerow dell’American Conservative Union. Bolsonaro è considerato l’ultimo dei mohicani di quel tipo di estrema destra anti establishment e per questo la partita per la sua rielezione è molto sentita anche fuori dai confini del Brasile.
Per quanto riguarda i soldi, quella che sta per cominciare è la campagna elettorale più costosa della storia del paese. I finanziamenti raccolti raggiungono quasi 7 miliardi di real, una cifra mai vista e superiore del 57 per cento rispetto alle presidenziali del 2018. In Brasile – dal 2015 e anche per via di Operação Lava Jato, la Mani Pulite locale – esistono forti restrizioni al finanziamento privato della politica e quasi tutti questi fondi sono soldi pubblici.
Lula da tempo è in testa nei sondaggi con un certo distacco e – se si votasse oggi – vincerebbe addirittura al primo turno. Ma mancano ancora molti mesi, le elezioni sono fissate per il prossimo ottobre e i colpi di scena non mancheranno. Lula promette politiche inclusive e allo stesso tempo pragmatismo. Che poi è un mix considerato il tratto distintivo del Partito dei lavoratori brasiliano nel panorama della sinistra latinoamericana degli ultimi decenni. Da quando è diventato partito di governo, ha mescolato la partecipazione dal basso sui territori (che con il passare degli anni e degli scandali si è ridimensionata parecchio) con l’astuzia politica, le alleanze al centro e la capacità di compromesso nelle istituzioni federali.
Bolsonaro invece non si sa bene cosa prometta, negli ultimi tempi da parte sua ci sono stati alcuni clamorosi voltafaccia. Dalla pandemia all’ambiente ai diritti civili le sue posizioni sono note e, a parte modesti aggiustamenti, non è cambiato granché. Ma il Brasile è la più grande economia dell’America latina e l’indirizzo politico che il presidente vuole imprimere invece in ambito finanziario e di gestione della spesa pubblica è diventato molto confuso. Appena eletto, Bolsonaro aveva scelto simbolicamente il forum di Davos come primo viaggio all’estero da presidente. Lì aveva sparato a zero sui suoi predecessori del Partito dei lavoratori e promesso il taglio delle tasse e completa libertà al settore privato. E poi che avrebbe messo fine all’assistenzialismo. Adesso ha cambiato idea e, per dare la misura della schizofrenia dell’esecutivo, c’è un titolo caustico del Financial Times della settimana scorsa: “Pensavate che i nemici del Fondo monetario internazionale fossero i governi di sinistra? Bolsonaro e il suo ministro della scuola di Chicago cacciano l’Fmi dal Brasile. Che governo pazzo e deprimente”.
Il tasso di approvazione dell’esecutivo è sceso al di sotto del 20 per centro e Bolsonaro, per provare a vincere, deve essere competitivo con Lula tra gli elettori con redditi bassi o sotto la soglia di povertà. L’aumento dell’inflazione sta colpendo soprattutto loro, e il presidente ha fatto inversione di marcia e ha cominciato a spendere tutto in sussidi, una pratica “da comunisti” che aveva sempre condannato. Ora che inizia una flebile ripresa, ha lanciato il piano Auxílio Brasil. Vuole sfruttare il vantaggio dato dalla sua posizione e spendere tutto quello che c’è fino al giorno in cui i brasiliani andranno alle urne. Non con interventi ragionati, ma con maxi provvedimenti da campagna elettorale che analisti e uomini d’affari che un tempo lo avevano sostenuto considerano pericolosi per le finanze pubbliche e al limite del voto di scambio. Visto che Bolsonaro non vuole nessuno che gli metta un freno e ficchi il naso nel dissesto che rischia di creare, costringe i rappresentanti del Fondo monetario internazionale ad abbandonare il Brasile. “Erano anni che non c'era bisogno di loro qui. Sono rimasti perché amano la feijoada, il calcio, la buona conversazione e, di tanto in tanto, criticare e fare previsioni sbagliate”, ha detto il suo ministro delle finanze Paulo Guedes.
Ma in mezzo al caos politico dai toni esasperati, si affaccia sulla scena un nuovo volto promettente che, invece, vuole calmare le acque. Anche se non avrebbe grandi chance come candidato alla presidenza, ha ottenuto un importante successo locale ed è interessante perché sembra un marziano rispetto a ciò cui ci ha abituato la politica brasiliana negli ultimi decenni. Si chiama Eduardo Leite, è giovane, è liberale ed è il governatore dello stato di Rio Grande do Sul. Ha fatto coming out a luglio ed è il primo governatore gay della storia del Brasile. Quando ha vinto, ha detto al Financial Times che lui è la prova vivente che Bolsonaro sbaglia nel continuare a ripetere che al Brasile “non piacciono gli omosessuali”. Leite ha 36 anni ma ha già un’esperienza da amministratore lunga tredici anni e cominciata nel consiglio comunale della città dov’è nato, e di cui poi è stato il sindaco. Questa volta, per lui, era ancora troppo presto. Leite ci ha provato ma non ha vinto la nomination del suo partito, il Psdb. Il candidato del partito centrista sarà invece un altro governatore, João Doria, che amministra lo stato di San Paolo, il più popoloso e quello che ospita la città più popolosa, ricca e dinamica del paese. Ma ciò su cui adesso si concentra Leite è un progetto a lungo termine e la missione è costruire un percorso politico che tra qualche anno porti la “terza via” a Palácio do Planalto, il palazzo presidenziale. Per l’ex presidente della banca centrale brasiliana Arminio Fraga lui è un ragazzo “very impressive”. Ha la capacità di sorprendere le persone e sarebbe quello giusto per guidare il paese, perché i brasiliani non ne possono più di tutte “le cose pazze” che sono capitate negli ultimi anni. Vogliono qualcosa “di fresco, un leader diverso ma con i piedi per terra”. Leite è sicuro che i brasiliani saranno presto stufi di questi anziani presidenti ed ex presidenti molto pieni di sé, a maggior ragione dopo un anno di campagne elettorale dai toni accesi in cui si parlerà di tutto tranne che di come far funzionare le cose. A quel punto guarderanno con interesse crescente alla sua proposta politica affidabile e ai suoi toni tranquilli, per chiudere i conti con il passato e lasciarsi alle spalle la rabbia. Questa, almeno, è la sua scommessa.