Il futuro golpista di Trump
L’assalto della folla al Congresso il 6 gennaio di un anno fa è stato il primo assaggio della grande eversione americana che ci aspetta. Siamo stati troppo buoni a dimenticare subito e i trumpistas se ne approfittano in vista del 2024. Un’indagine
Credevamo che il 6 gennaio 2021, quando una torma di fanatici americani fece irruzione dentro al Congresso, fosse un rigurgito spontaneo provocato dalla propaganda trumpiana di quei giorni. Questi non ci vogliono stare, pensavamo. Da due mesi il presidente li bombarda di messaggi dicendo loro che le elezioni sono state un grande imbroglio e che lui è il vero vincitore e non deve e non può lasciare la Casa Bianca, ecco come finisce: che assaltano il Campidoglio a Washington per linciare il vicepresidente Mike Pence. Era uno spettacolo straordinario trasmesso in diretta in tutto il mondo ma tutto sommato era anche prevedibile: mai chiamare a raccolta gli svitati, quelli si materializzano davvero vestiti da sciamano con le corna da bisonte.
Pensavamo in quelle ore che persino da quel disastro filmato da ogni possibile angolazione potesse arrivare qualcosa di buono. Una volta che questo raptus di massa sarà finito e una volta che qualcuno farà le pulizie e metterà a posto i vetri rotti, questo assalto sarà il capitolo finale del trumpismo dopo quattro anni che sono stati un crescendo di paranoia e di estremismo. Non riuscivamo a cogliere il disegno più generale, che adesso, dopo un anno di prove e di inchieste e di testimonianze è molto più chiaro. La distanza temporale ha portato informazioni in più, oltre a snebbiare le idee.
L’irruzione al Congresso del gennaio 2021 non fu un fatto spontaneo, ma parte di un schema studiato a tavolino per ribaltare il risultato delle elezioni. Quella folla intossicata da mesi di propaganda (e con molto anticipo rispetto al giorno del voto) non era sfuggita di mano: era stata manipolata per fare quello che stava facendo. La rabbia popolare non era un eccesso prodotto dal piano di Donald Trump per soffiare la presidenza a Joe Biden: era una parte del piano. L’ultima parte, quella degli individui spesso a volto coperto che entrano nelle aule del Congresso con le fascette di plastica per arrestare i politici, era una deviazione dal piano, ma la gente che alzava patiboli sul prato all’esterno, la pressione sulle transenne e il ruggito che si sentiva bene all’interno dell’edificio assediato facevano parte della coreografia. Intendiamoci: che quella rabbia fosse il prodotto delle dichiarazioni di Trump e dei suoi era chiarissimo, ma ancora non si sapeva che quelle dichiarazioni e quella rabbia facevano parte di una strategia discussa e studiata, e che da mesi gli uomini di Trump si scambiavano mail e facevano riunioni ristrette per decidere come attuarla meglio.
E dunque i fanatici che scalavano il Campidoglio erano rotelle della macchina messa in moto per ottenere altri quattro anni di Trump, proprio come lo erano i suoi avvocati che in quelle settimane tempestavano di ricorsi pretestuosi i tribunali di molti stati americani per annullare il conteggio dei voti e rovesciare il risultato. Il tizio con le corna e le squadre di legali avevano lo stesso scopo finale. Creare una pressione enorme che facesse apparire sensata l’idea che le elezioni 2020 fossero incerte. Produrre le condizioni per una procedura anomala. Annullare le dichiarazioni di voto di alcuni stati. Trasferire la decisione al Congresso, dove i repubblicani erano la maggioranza. Dichiarare vincitore Trump.
La reazione avversa della folla trumpiana era il pilastro morale che doveva reggere la manomissione delle elezioni 2020: con tutto questo fumo, vuoi che non ci sia un po’ di arrosto? Se così tanta gente è scontenta vuol dire che ci dev’essere qualcosa di marcio per forza: questo trucco non ha funzionato nel gennaio del 2021, ma oggi il settanta per cento degli elettori repubblicani è convinto che Joe Biden abbia rubato la presidenza a Donald Trump ed è ancora abbastanza potente per funzionare in futuro. Poi la prova di forza si spinse appena un po’ più in là del previsto, ma non di molto.
In questi dodici mesi abbiamo capito anche altre due cose. L’imbarazzo del giorno dopo dentro al Partito repubblicano ci sembrava definitivo e in grado di seppellire una volta per tutte il fronte dei trumpiani e far tornare di nuovo alla ribalta i repubblicani della vecchia guardia, quelli che erano stati schiacciati in un angolo dalla deriva dei quattro anni precedenti.
Dentro al Partito repubblicano c’era stata una resa dei conti tra gli entusiasti dell’ideologia di Trump – o se si preferisce: di Steve Bannon – e i repubblicani ancora affezionati alle idee classiche del partito e a questi ultimi era toccato soccombere. Il 7 gennaio, per qualche ora, sembrò che l’assalto in diretta mondiale al Congresso sarebbe stata la fine dei bannoniani e la nuova alba dei repubblicani tradizionali. L’imbarazzo era così cocente che Fox News, l’emittente del trumpismo, sostenne persino che la folla non poteva essere formata da trumpiani, ma da antifa della sinistra radicale travestiti da trumpiani. Ora sappiamo che anche Donald Trump provò a dire, in quel suo modo contraddittorio e apodittico che abbiamo imparato a conoscere nei quattro anni di presidenza, che quella non era gente “sua”. Secondo le ricostruzioni del Washington Post, che i trumpiani definiscono “fake news” ma tant’è, il leader dei repubblicani alla Camera, quel Kevin McCarthy che in tutto il 2021 ha cercato un equilibrio impossibile tra Trump e il Partito repubblicano che fu, telefonò all’allora presidente e gli disse: “Deve denunciare quel che sta accadendo”. Trump gli disse che gli insorti erano degli antifà, cioè dei radicali di sinistra violenti, ma McCarthy gli disse che no, erano suoi sostenitori. “Sai cosa vedo io, Kevin? – rispose Trump – Vedo della gente che è molto più arrabbiata dell’esito delle elezioni di quanto lo sia tu. Vogliono più bene loro a Trump di quanto ne voglia tu”. McCarthy continò a insistere: “Lei deve andare in tv adesso, deve andare su Twitter, e deve rimandare questa gente a casa”. E Trump: “Non è la mia gente”. “Sì, presidente, è la sua gente – disse McCarthy – Sono arrivati alla finestra del mio ufficio e i miei collaboratori si stanno nascondendo. Yeah, sono la sua gente. Li mandi via”.
Poi quell’imbarazzo dei trumpiani, non soltanto dei politici, ma dei figli, dei collaboratori stretti, dei cosiddetti lealisti, si è dissolto. Il 6 gennaio – che è diventato J6 per la pratica americana di sintetizzare – ora è una data che i trumpiani ricordano con orgoglio. Si vanno a visitare i condannati in carcere come se fossero prigionieri politici, si tengono comizi dove si espongono le bandiere impugnate dalla folla al Congresso durante l’irruzione del 6 gennaio come se fossero reliquie recuperate da una battaglia. Nessuno sostiene più che l’irruzione fosse una provocazione antifà, anzi: comincia a prendere le fattezze di un evento storico da rivendicare, una riedizione del Boston Tea Party – quando gli americani esasperati buttarono a mare un carico di tè – che diede il via alla guerra d’indipendenza contro gli inglesi due secoli e mezzo fa. J6 non fu la fine, ma piuttosto il capitolo primo di una lunga marcia.
E veniamo alla terza cosa che abbiamo capito ora che possiamo osservare i fatti dalla prospettiva di un anno di distanza: credevamo che la soluzione adottata negli Stati Uniti per assorbire i danni del J6, capire e perdonare i propagandisti e i predicatori eversivi, fosse ragionevole e giusta. Se criminalizzi una parte enorme della politica e dell’elettorato è difficile poi rimettere assieme il paese e del resto la vittoria di Biden cascava al momento giusto: avrebbe dovuto essere una fase di rehab collettiva e noiosa per calmare la situazione. Invece siamo arrivati al primo anniversario del 6 gennaio 2021 e gli assaltatori del Congresso e i loro sponsor politici sono più forti di prima e non vedono l’ora di usare lo stesso metodo ai prossimi appuntamenti elettorali. Se Donald Trump ci ha insegnato una regola a partire dal 2017 è questa: quello che prima ti avrebbe ucciso politicamente ora ti rafforza. Anche il J6.
In questi mesi abbiamo scoperto che un avvocato come Jenna Ellis, professore di Legge all’Università del Colorado, o il costituzionalista conservatore John Eastman, professore di Legge all’Università di Chicago, avevano preparato spiegazioni dettagliate – e riservate – a uso e consumo di Trump e del suo clan. Entrambi non possono essere definiti estremisti, eppure quelle dissertazioni tracciavano la via dal punto di vista della procedura legale per annullare la vittoria di Biden. Individuavano i punti deboli, i passaggi ambigui da interpretare e tutti i difetti reali o presunti nelle regole che ogni quattro anni assicurano la transizione democratica degli Stati Uniti da un presidente all’altro. Sfruttavano fino alla soglia della mala fede e oltre quei difetti e si basavano su assunti mai approvati oppure mai sperimentati in precedenza. Ma fornivano al presidente e al suo consiglio di guerra una road map dalle sembianze paralegali per sperare ancora.
E’ appena uscito un libro firmato da Pete Navarro, economista di Harvard diventato consigliere di Trump, che racconta il suo punto di vista in quei giorni. Ebbene, anche lui si vanta di essere fra gli autori del piano segreto per prolungare il mandato del presidente di altri quattro anni a dispetto del risultato del voto. Scrive che lui e Bannon chiamavano quella manovra la “Green Bay Sweep”, dal nome di una manovra di sfondamento usata negli anni Sessanta durante le partite dai Packers, una squadra di football americano del Wisconsin. Dice che l’assalto finale del 6 gennaio rovinò tutto – si vede che Navarro non può ancora rivendicarlo come una prova di forza popolare – ma conferma in tutto e per tutto l’impianto teorico che quel giorno spingeva la folla a circondare il Campidoglio: Pence non doveva certificare i voti di alcuni stati. E conferma di nuovo che la folla cantava “impiccate Pence” e menava poliziotti (140 furono feriti) perché seguiva un parere legale redatto da persone che facevano parte dell’élite intellettuale del paese. Può darsi che si fosse radicalizzata a furia di frequentare gruppi facebook per beoti, ma quel giorno suonava uno spartito che era stato scritto da esperti del settore – per quanto assoldati in una battaglia ideologica senza esclusione di colpi.
Il piano di Trump, si diceva, è ancora in moto e si è spostato sulle elezioni del 2024. Ecco cosa dice l’Atlantic, un mensile americano di idee e inchieste che ci tiene a essere elegante e a tenersi il più lontano possibile dal giornalismo urlato: “Per più di un anno, con l’appoggio tacito ed esplicito dei leader nazionali del partito, gli operativi repubblicani a livello degli stati hanno costruito un apparato per rubare le elezioni. Funzionari eletti in Arizona, Texas, Georgia, Pennsylvania, Wisconsin, Michigan e altri stati hanno studiato la crociata di Trump per ribaltare le elezioni del 2020. Hanno preso nota dei punti dov’è fallita e hanno preso misure concrete per evitare il fallimento la prossima volta. Alcuni di loro hanno riscritto le regole per prendere il controllo non condiviso delle decisioni su quali voti contare e quali scartare, quali risultati certificare e quali respingere. Stanno allontanando o spogliando dei loro poteri i funzionari che rifiutarono di seguire il piano a novembre dell’anno scorso e puntano a rimpiazzarli con sostenitori della Grande Bugia (the Big Lie, così si chiama la pretesa trumpiana di essere vittima di un complotto di Biden).
Stanno elaborando un parere legale che conferirebbe ai parlamentari dei singoli stati il potere di scavalcare la scelta fatta dagli elettori.
Per fare da base a tutto il resto, Trump e il suo partito hanno convinto un numero spaventosamente grande di americani che i meccanismi della democrazia sono corrotti, che le denunce inventate di brogli sono vere, che soltanto un inganno può avere sottratto loro la vittoria elettorale, che la tirannia ha usurpato il loro governo e che la violenza è la risposta legittima. Non tutto il Partito repubblicano suona questo spartito, ma i trumpiani ci stanno lavorando. Il Washington Post ha appena pubblicato un articolo per raccontare della campagna politica organizzata da Trump in vista delle elezioni di metà mandato del novembre di quest’anno. Lo scopo non è battere i democratici, dicono loro stessi ai giornalisti, ma prevalere dentro al Partito repubblicano che potrebbe riconquistare la maggioranza in una o entrambe le camere del Congresso. E’ una guerra fratricida, e buona parte del sangue è già stato versato in questo 2021 che abbiamo vissuto come terremotati che non si spaventano per le scosse di assestamento perché tanto è già crollato tutto, si può solo ricostruire: il post trumpismo è Trump, è il sogno di un Congresso a maggioranza trumpiana, è il ritorno del 2024.
I segnali c’erano già nel gennaio dell’anno scorso, ma non li abbiamo visti, anzi abbiamo continuato a considerarli dei rigurgiti rimediabili. Quando i democratici decisero di andare avanti con il secondo impeachment di Trump, dopo il fallimento del primo, ci sembrarono un po’ dei fanatici. Lo stesso Biden, che aveva fatto del dialogo e del ricucire la sua battaglia, lui che si era presentato ad annunciare la vittoria dicendo: la guerra è finita, era freddino nei confronti di quel processo postumo. In fondo gli elettori avevano scelto, l’alternanza democratica era stata decisa nelle urne, e sì c’erano stati i fumogeni, l’assalto, i morti, lo scempio del J6, ma perché accanirsi? La guerra è finita. I democratici che volevano l’impeachment poi erano i più radicali, quelli che il dialogo con i repubblicani l’avevano interrotto per ideologia non per necessità e che avevano votato Biden con il naso turato, pronti a chiedere pegno: sembrava più saggio e più adulto lasciarsi alle spalle i tormenti degli anni precedenti e persino il 6 gennaio, piuttosto che verificare le responsabilità di Trump. Per di più che queste responsabilità erano chiare a tutti, erano gli stessi alleati dell’ex presidente ad ammetterle. Per questo non facemmo troppo caso al fatto che soltanto dieci repubblicani su oltre duecento votarono, alla Camera, a favore dell’impeachment. Pensammo che, nel fine vita, accanirsi è orrendo. E c’era stato anche l’impeachment precedente, un viaggio contro il muro dei repubblicani che, per quanto un po’ infastiditi e preoccupati, tra condannare il proprio presidente o salvare il partito non avevano mai avuto un dubbio.
Quei dieci repubblicani ribelli sono diventati il bersaglio di Trump: gli infedeli da abbattere. Liz Cheney li rappresenta tutti: figlia dell’ex vicepresidente più detestato della storia moderna americana, una conservatrice tradizionale falca e pure apparentemente distaccata che ha vinto il suo seggio in Wyoming con una maggioranza senza appello, è stata spodestata dalla sua carica dentro al partito alla Camera, ha subìto un processo interno che l’ha svilita, ha fatto interventi sulla difesa della Costituzione degli Stati Uniti che sono stati accolti da risate e sberleffi, e ora rischia di perdere la rielezione, perché i trumpiani le hanno messo una rivale che alla domanda: sei d’accordo con Trump che le elezioni del 2020 sono state rubate dai democratici? risponde di sì, mentre Liz Cheney dice no. Riceve minacce di morte, è un’estranea nel partito che è sempre stato casa sua, e anche se si mostra salda e determinata a fermare questa deriva, sa di essere tremendamente sola. Ad agosto, alla Fair Parade della fiera del Wyoming dove i Cheney hanno sempre avuto il ruolo riconosciuto di leader, la gente gridava: “Fuck Liz Cheney”. Per vincere, i democratici devono votare per lei, cosa che fa dire ai sondaggisti: è spacciata.
Brad Raffensperger, il segretario di stato della Georgia che ricevette la famosa telefonata di Trump in cui l’ex presidente pretendeva che si dicesse che avevano votato i morti alle elezioni, che c’erano stati dei brogli e che andavano trovati undicimila voti perduti per consegnargli la sua giusta vittoria, riceve minacce di morte perché si è rifiutato di assecondare il piano trumpiano. Due dei deputati repubblicani che hanno votato per l’impeachment, Anthony Gonzales e Adam Kinzinger, non si ricandideranno. Quando Trump l’ha saputo ha detto: “Due abbattuti, otto da abbattere”. E per abbatterli, Trump sceglie metodicamente degli sfidanti alle primarie che stanno con lui: lo sa bene la senatrice dell’Alaska, Lisa Murkowski, una dei sette senatori repubblicani che hanno votato per l’impeachment, e che dopo decenni di carriera rischia di essere estromessa dal Senato a causa della volontà trumpiana di eliminare tutti gli infedeli. L’elenco di politici di lungo corso che oggi si trovano di fronte a questa scelta è lungo, e badate: non si tratta di dichiararsi blandamente trumpiani, bisogna sostenere il fatto che questo mandato presidenziale alla Casa Bianca, Joe Biden e i suoi, sono degli usurpatori. Nella costruzione del ritorno di Trump, l’assalto alla democrazia americana non è stato il 6 gennaio, ma il 3 novembre, quando si è votato, anzi, quando s’è imbrogliato.
Lawrence Wright, scrittore e premio Pulitzer per “Le altissime torri”, uno degli autori più scrupolosi e attenti ai dettagli che ci sono, è molto meno pessimista nella visione del futuro del paese. Dice che “è troppo presto per dire se l’insurrezione del 6 gennaio è stata la fine di qualcosa o l’inizio di una nuova guerra civile”. In “L’anno della peste” (NREdizioni), un resoconto del 2020 pandemico, Wright racconta il 6 gennaio con gli occhi e il ricordo di Matt Pottinger, che è stato viceconsigliere per la Sicurezza di Trump. Quella mattina, Pottinger stava andando al lavoro e in metropolitana aveva incontrato molti dei sostenitori di Trump che si stavano radunando fuori dal Congresso. Si era messo a parlare con due signore che volevano ascoltare il presidente al comizio “Save America” previsto per mezzogiorno e chi gli avevano detto perché erano lì: “Non può essere comprato, presta attenzione alle persone che sono state ignorate, dice quello che pensa e non si preoccupa dei messaggi”. Pottinger era rimasto colpito da queste chiacchiere disincantate, aveva pensato che forse le cose non sarebbero finite male, aveva persino invitato le signore a fare un tour della Casa Bianca. Di lì a qualche ora, le due signore sarebbero arrivate, una soltanto in realtà perché l’altra non aveva voluto indossare la mascherina, mentre Pottinger e tutti i funzionari rimasti alla Casa Bianca guardavano impietriti le immagini del Congresso e cercavano di convincere il presidente a porre fine all’assalto. Wright ricorda anche un altro elemento importante di quei giorni: “L’Fbi aveva fornito un unico avvertimento: si aspettava proteste al Campidoglio da parte di persone che ‘esercitavano i loro diritti garantiti dal Primo Emendamento’. Il 5 gennaio, l’ufficio dell’Fbi a Norfolk, in Virginia, aveva esplicitamente avvertito che gli estremisti sarebbero arrivati a Washington per protestare contro la sconfitta elettorale di Trump e contro le misure anti pandemia che consideravano illegali. Internet era soffocata da minacce complottiste. ‘Pronti a combattere’, era ciò che diceva uno dei messaggi. ‘Il Congresso ha bisogno di sentire il rumore dei vetri rotti, delle porte sfondate e del sangue versato dai soldati schiavi di Black Lives Matter e di Pantifa [sic]. Siate violenti. Smettetela di definire questo come un raduno una marcia, una manifestazione o una protesta. Siate pronti alla guerra. O il nostro presidente o la morte’. Niente di tutto ciò rientrò nel briefing quotidiano sul terrorismo. Fu il più imperdonabile fallimento dell’intelligence dall’11 settembre”.
Nell’ultimo anno sono usciti molti articoli e libri che hanno cercato di spiegare come si è arrivati al 6 gennaio, perché tutti sapevano che sarebbe accaduto qualcosa ma nessuno ha fatto nulla, perché chi parlava di “tentato golpe” era trattato come un catastrofista, perché non fosse chiaro che Trump stesse aizzando la sua gente per ottenere qualcosa di concreto, non la pacca sulla spalla al vincitore morale. Stava anche facendo delle pressioni enormi sul suo vicepresidente, Mike Pence, cui spettava il compito di ratificare il conteggio dei grandi elettori stato per stato e annunciare la vittoria ufficiale di Biden. “E’ un bravo ragazzo”, andava dicendo e twittando Trump riferendosi al suo vice, sa cosa deve fare, e sa che la cosa giusta è denunciare i brogli. Sappiamo come è andata a finire, sappiamo che Pence è stato portato in tutta fretta, lui e la sua famiglia, nel garage del Congresso ed è rimasto lì ad aspettare la fine dell’insurrezione, mentre fuori gridavano: impiccate Mike Pence. Oggi sappiamo anche molto di più di quello che è accaduto alla Casa Bianca, perché sono stati pubblicati dei libri al riguardo e perché c’è una commissione d’inchiesta al Congresso che indaga su quei fatti.
Nata quasi come un contentino per l’impeachment mancato, questa commissione è diventata il confessionale più importante della politica americana di questo momento. La commissione (Liz Cheney è una dei due repubblicani che ci sono dentro) ha ascoltato almeno trecento testimonianze, ha raccolto migliaia di documenti tra email e messaggi e combatte contro l’ostruzionismo dei trumpiani e dello stesso Trump, che non vogliono collaborare nemmeno quando un tribunale li chiama a testimoniare, e contro il tempo. Perché è diventato quanto mai urgente fermare il ritorno di Trump e limitare la sua capacità di decidere e di imporsi nella selezione dei candidati per le elezioni di metà mandato del novembre prossimo. Quel che sembrava un’analisi postuma di una serie di incomprensioni e fallimenti, proprio come è accaduto con la commissione dell’11 settembre, è diventata materia politica incandescente ora che il Partito repubblicano non soltanto si lascia guidare dal suo ex presidente in questo attacco permanente alla credibilità della democrazia americana, ma non cerca nemmeno un suo eventuale sostituto, quasi fosse già rassegnato al fatto che il 2024 sarà un altro anno di Trump.
Lawrence Wright, dicevamo, è meno pessimista: “E’ vero che i repubblicani sono ancora schiavi di Trump, ma alcuni di loro stanno cercando di liberarsi. Per esempio, Glenn Youngkin, che ha vinto le elezioni da governatore della Virginia, è riuscito a tenere a bada Trump, e molti altri stanno studiando il suo metodo. Persino alcuni trumpistas sembrano essersi un po’ allontanati: ora lui vuole prendersi i meriti dei vaccini, cosa che gli spetta, ma quando dice alle persone di vaccinarsi, loro lo fischiano”. Wright vede delle crepe, vede un tentativo dei repubblicani di costruire un post trumpismo che certo non è come lo immaginavamo un anno fa, cioè un ritorno alla tradizione conservatrice, ma che comunque vuole costruire qualcosa al di fuori di Trump. Ci sono molte iniziative in questo senso, ma sembra che Trump stesso non abbia alcuna intenzione di lasciare la propria eredità a qualcuno che non sia se stesso. Il 2021 del suo ex chief of staff, Mark Meadows, è qui a dimostrarlo.
Protagonista dell’ultimo anno della presidenza trumpiana, Meadows ha pubblicato un memoir, “The Chief’s Chief”, e ha deciso di collaborare con la commissione d’inchiesta del Congresso. Un atto invero coraggioso, se si pensa a tutto quello che il team dell’ex presidente sta facendo per non dover testimoniare là davanti e continuare quindi a nascondere le proprie responsabilità. A fine novembre, con il libro appena uscito, Meadows consegna molte delle sue email e dei suoi messaggi alla commissione, inizia il tour promozionale del suo memoir, e dopo qualche giorno cambia idea. Non si fa più vedere in giro (il suo libro sta andando molto male, cosa che di solito agli insider del trumpismo non accade), dice alla commissione che non collaborerà più e anzi denuncia la speaker della Camera, Nancy Pelosi, chiedendo al giudice di far ritirare i mandati di comparizione che ha ricevuto. Non si sa che cosa è successo, nel giro di pochi giorni, a Meadows: è facile immaginare che ci siano state delle pressioni da parte di Trump per restare uniti, magari ci sono state anche delle minacce, ma davvero Meadows non aveva messo in conto tutto questo e si è spaventato perché Trump ha detto di lui: “cazzo di cretino”? Non lo sappiamo, la via dell’emancipazione da Trump pare piena di ostacoli e di fragilità, sappiamo per certo è che i suoi documenti, Meadows, li ha consegnati.
Liz Cheney ha letto ad alta voce davanti alla commissione alcuni sms. Donald Jr, figlio di Trump, scrive al chief of staff che suo padre “deve condannare questa merda il prima possibile. C’è bisogno di un discorso dallo Studio ovale, deve mostrare leadership: le cose sono andate oltre e sono fuori controllo”. Sean Hannity, superstar di Fox News trumpianissimo, scrive a Meadows: “Può fare una dichiarazione pubblica? Deve dire alla gente di andarsene da Capitol Hill”. Anche Laura Ingraham, conduttrice di Fox News, scrive a Meadows: “Ehi Mark, il presidente deve dire alla gente a Capitol Hill di andare a casa, questa cosa fa male a tutti, e lui così distrugge la sua eredità politica”. Nei documenti consegnati c’è anche un PowerPoint di 38 pagine, fatto circolare da Meadows il 7 novembre del 2020, intitolato: “Brogli elettorali, interferenze straniere e opzioni per il 6 gennaio”.
Le responsabilità di Trump erano presumibili un anno fa e sono evidenti oggi, ma hanno cambiato di segno. Quel che allora sembrava una condanna ultimativa e unanime a una presidenza che aveva messo in torsione la struttura democratica dell’America fin quasi a spezzarla oggi è il motore della rinascita, la ragione per cui una nuova candidatura di Trump è necessaria: va fatta giustizia, va ripreso il maltolto. E’ per questo che per il 6 gennaio, questa settimana, Trump ha organizzato un comizio di “celebrazione”, in cui ribadirà che il giorno in cui si è rotta l’America non è il 6 gennaio del 2021, ma il 3 novembre del 2020, il giorno delle elezioni cosiddette rubate. “Penso che i repubblicani conquisteranno il Congresso e forse anche il Senato – dice Wright – ma non con i margini che ora si immaginano. Fino alle prossime presidenziali nel 2024, la nazione sarà in una specie di paralisi. Spero di poter vedere nuove facce tra i candidati, in grado di offrire scelte chiare. Sarebbe un momento di consapevolezza importante in mezzo al chiasso e alla disperazione, e ci darebbe la possibilità di vedere un’immagine di quel che siamo veramente”. Wright vede nelle elezioni comunque un’occasione, e molti pensano che le possibilità di ricandidarsi di Trump siano piccole, per i guai finanziari che ha, per l’età che ha, perché magari un anno per metabolizzare il trumpismo è poco, ma poi il tempo mette nella giusta prospettiva ogni frattura. Il 6 gennaio del 2021, Donald Trump ci mise centottantasette minuti, più di tre ore, a reagire di fronte all’assalto al Congresso, a dire quello striminzito: andate a casa, mentre fissava il televisore e mandava a quel paese tutti quelli che gli dicevano che doveva calmare i manifestanti, e che solo lui poteva farlo. Centottantasette minuti, un tempo infinito in cui noi siamo rimasti a guardare sbalorditi il Congresso assaltato, e per pudore non abbiamo voluto fare paralleli con l’11 settembre, non abbiamo titolato sull’America sotto attacco, perché in questi anni Duemila ci siamo abituati a pensare che il terrorismo fosse soltanto di matrice islamista e abbiamo derubricato il terrorismo interno, quello del vicino di casa che nel basement ha le armi e le corna da sciamano. Invece quel giorno la democrazia americana s’è rotta, il presidente ha avuto centottantasette minuti per metterla in salvo e non ha voluto farlo, il suo successore ha sperato, sbagliando, che bastasse dichiarare il cessate il fuoco per fermare la guerra, e ora siamo qui, al primo anniversario, a sentire Trump che dice del 2024: “Se non mi candidassi, molta gente sarebbe molto arrabbiata”. Nella storia americana soltanto un presidente ha vinto un secondo mandato quattro anni dopo aver perso la corsa per la propria rielezione: Grover Cleveland, 130 anni fa. Non depone a favore del successo di Trump, ma sappiamo che la storia con lui non si applica e che il 6 gennaio è stato l’inizio di una nuova fase. Toqueville diceva: “Ognuno di noi percepisce il male, ma nessuno ha abbastanza coraggio o abbastanza energia per cercarne la cura”.