spiragli di ottimismo
La doppia faccia dell'Iran nei colloqui sul nucleare
A Vienna gli iraniani cedono un po’, in casa fanno la faccia da guerra. Ecco spiegato il paradosso
Roma. I colloqui sul nucleare iraniano sono agli sgoccioli, si capisce da quello che succede sia a Vienna – la sede dei negoziati internazionali – sia a Teheran. Nella prima capitale va in scena il gioco della diplomazia, nella seconda si susseguono minacce e azioni militari da parte dei pasdaran e delle milizie alleate sparse per il medio oriente. I miliziani amici dell’Iran in Yemen attaccano navi occidentali, mentre altri miliziani alleati colpiscono le postazioni americane in Iraq con droni targati: “Vendetta per Suleimani”. Perché ieri era il secondo anniversario del raid americano all’aeroporto di Baghdad che uccise il generale pasdaran Qassem Suleimani.
A Vienna gli iraniani dicono di voler tornare all’accordo sul nucleare, in casa sono più aggressivi del solito: le esercitazioni con i missili si sono intensificate, i giornali scrivono che sono “missili per la diplomazia” e dicono che mostrarsi pericolosi aiuta nei negoziati con gli americani. Ma sono anche dimostrazioni di forza nel caso – tutt’altro che escluso – l’accordo salti. Il programma atomico dell’Iran non avrebbe più vincoli e non ci sarebbe più un tavolo diplomatico aperto: la situazione diventerebbe pericolosa.
A Vienna, dove ieri sono ricominciati i colloqui dopo la pausa di Capodanno, c’è qualche spiraglio di ottimismo. La delegazione iraniana si è detta soddisfatta perché “gli occidentali hanno lasciato cadere le loro richieste irricevibili”. Può sembrare un paradosso ma questa frase viene interpretata in modo positivo dagli analisti: è come se stessero mettendo le mani avanti perché adesso anche per l’Iran è arrivato il momento di passare all’incasso e chiudere l’accordo. Insomma, quelle parole servono per giustificare la prossima mossa e per la propaganda interna della Repubblica islamica. Arrivano ora perché il tempo sta finendo, arrivano in ritardo perché gli iraniani hanno usato gli ultimi sei mesi per ritagliarsi una posizione comoda oltre che strategica.
La si può riassumere così: tiriamo la corda, contando sul fatto che la Bomba fa molta paura alla controparte quindi è improbabile che siano loro ad abbandonare il tavolo finché – pur facendo i capricci – noi rimaniamo. Il ragionamento continua: se poi la corda si spezza e il tavolo salta, la popolazione continuerà a soffrire la crisi economica ma, dal punto di vista militare, faremo ancora più paura. Non è sbruffonaggine, lo ha detto anche il capo del Comando centrale degli Stati Uniti, il generale Kenneth F. McKenzie: “Teheran con i suoi missili balistici adesso – per precisione e quantità – ha la capacità di prevalere in quel teatro”. Lo ha definito il raggiungimento dell’overmatch.
Era stato McKenzie a inviare il drone sulla testa di Suleimani il 3 gennaio 2020. Cinque giorni dopo, arriva la vendetta iraniana contro la base americana di Al Asad in Iraq. È il più grande attacco con missili balistici mai avvenuto contro le truppe americane. Donald Trump aveva commentato: “Ho sentito che hanno mal di testa”. Invece dopo due anni hanno ancora allucinazioni e vertigini, uno dei soldati non è riuscito a sopportarle e si è suicidato tre mesi fa.
L’attacco lo aveva coordinato il capo dell’aeronautica dei pasdaran Amir Ali Hajizadeh, che McKenzie chiama “lo spericolato”. È lo stesso che coordina le esercitazioni delle ultime settimane e dice che l’Iran ha le capacità missilistiche per sostenere una guerra a tutti gli effetti e che le basi e le navi americane sono nel loro raggio di azione. La prima vittoria iraniana nei negoziati di Vienna era stata proprio l’esclusione di qualsiasi limitazione ai missili.