Il Kazakistan brucia
Le proteste durissime dei kazaki. Mosca e Pechino osservano le statue di Nazarbayev venire giù
Il 2022 è iniziato in Kazakistan con le più grandi proteste nel paese dall’indipendenza, di cui pochi giorni fa si è festeggiato il trentesimo anniversario. Scoppiate nella zona occidentale dello sconfinato territorio nazionale per un rialzo del prezzo del carburante, le mobilitazioni di piazza hanno immediatamente preso piede in numerose città, tra cui la capitale economica, Almaty. I manifestanti, scesi in strada a decine di migliaia, non si sono accontentati delle prime blande concessioni delle autorità – tra cui un taglio del prezzo dell’energia e le dimissioni del governo in carica – chiaro segno della natura profondamente politica del malcontento. Il presidente, Tokayev, ha risposto col pugno di ferro, bloccando internet e introducendo in alcune zone lo stato di emergenza fino alla seconda metà di gennaio. Ma non ha ottenuto grandi effetti, considerando che numerosi edifici pubblici sono stati attaccati e dati alle fiamme, tra cui quello del partito di governo Nur otan, e che l’aeroporto di Almaty è stato occupato.
Il principale bersaglio delle proteste, però, è senza dubbio Nursultan Nazarbayev, storico leader dimessosi a sorpresa nel 2019 ma che ha mantenuto un’enorme influenza sulla vita politica kazaka. Fino a ieri occupando anche la posizione di capo del Consiglio di sicurezza nazionale, carica lasciata sull’onda delle proteste e assunta da Tokayev.
Probabilmente una definitiva uscita di scena, anche considerato l’abbattimento di alcune statue in suo onore: sono queste le immagini più potenti di queste proteste e che segnano la fine di un’èra. Quale sarebbe la colpa di Nazarbayev? Aver congelato il Kazakistan in una modernizzazione solamente economica e legata soprattutto alle ingentissime risorse energetiche mantenendo inalterata, quando non inasprendola, la natura autoritaria del suo regime. Stroncando sul nascere qualsiasi tentativo di affrancamento dal modello sovietico che per decenni ha imbrigliato l’Asia centrale. La sua linea è sempre stata supportata dall’alleato di ferro: la Russia.
Il Cremlino è infatti vicinissimo al Kazakistan sotto tutti i punti di vista. Soprattutto militare e politico, ma anche sul fronte etnico: basti pensare che la parte settentrionale del territorio kazako, che confina con la Russia, è un’area da sempre a maggioranza russofona. Nella capitale regionale, Petropavl, il 60 per cento della popolazione è di etnia russa. E’ evidente che il presidente russo, Vladimir Putin, guardi con attenzione a quanto accade nel paese. Alcuni media russi hanno descritto i disordini e le proteste in Kazakistan come una rivolta nazionalista alimentata anche dalle solite non meglio precisate “influenze esterne”. L’instabilità ai confini è uno spauracchio per il Cremlino e Putin non vuole distrazioni nel pieno della sua partita geopolitica ed energetica con l’Unione europea e la volata verso le elezioni presidenziali del 2024.
Anche a Pechino il caos kazako ha fatto alzare più di un sopracciglio. La Cina è seconda solo alla Russia – sotto certi aspetti, come quello economico, addirittura prima – per vicinanza al Kazakistan. Come dimostra, per esempio, il fatto che nel 2013 l’annuncio di Xi Jinping riguardante il progetto delle Nuove vie della seta sia stato fatto proprio dal territorio kazako.
Anche gli occhi di Pechino sono quindi puntati sul Kazakistan, ovviamente senza troppo clamore, come nello stile della Repubblica popolare.
Mentre le proteste non accennano a diminuire e sembrano anzi aumentare d’intensità, a trent’anni dalla fine dell’Unione sovietica molti nodi sono ancora da sciogliere, se non in tutti, perlomeno in molti dei paesi che componevano l’Urss. Ogni realtà nazionale fa ovviamente storia a sé, ma il filo conduttore sembra essere quello di regimi rimasti ancorati a modelli di potere sempre più difficili da giustificare e sostenere. E questo a prescindere da quanto esteso ed evoluto sia il sistema repressivo o ricche le riserve energetiche del paese.