Le terre più ricche
Ecco perché il Kazakistan fa gola a Russia e Cina
Le guerre non si fanno più per il petrolio, ma per il litio e gli altri materiali tech. La competizione è accesa anche in Africa dove la Cina entra in contrasto con l’Europa, o meglio, con alcuni paesi, a cominciare dalla Francia
Se una notte chiara e senza vento un viaggiatore, lungo la rotta che attraversa le Ande, gettasse lo sguardo dal finestrino dell’aereo mentre sorvola il territorio boliviano del Potosì uno dei più poveri al mondo, sarebbe colpito dal latteo baluginìo dell’immensa distesa di sale chiamata Salar de Unuy a 3.600 metri di altitudine, e avrebbe l’impressione di aver raggiunto la luna. Un’area gigantesca si estende per diecimila chilometri quadrati, lassù dove il gelido candore notturno si trasforma in accecante e rovente bagliore sotto i martellanti raggi solari. Quel sale non serve a insaporire le vivande, ma per estrarre il più leggero dei metalli, con un densità pari a metà di quella dell’acqua, algido come l’argento, pronto a ossidarsi a contatto con l’aria e a diventare persino leggermente esplosivo.
Scoperto in Svezia ai primi dell’Ottocento e chiamato litio, per un secolo è stato usato soprattutto contro il disturbo bipolare, la depressione, la schizofrenia, finché non è diventato materiale di base per produrre trizio e assorbire i neutroni durante la fusione nucleare. La Bomba insomma lo ha trasformato in un’arma, anche se continua ad avere molte civilissime applicazioni come nell’ottica, nella purificazione dell’aria, in medicina.
Oggi il 65 per cento del litio serve per le batterie di vario tipo; il 18 per cento per produrre ceramica e vetro; il 5 per cento per i grassi lubrificanti; il restante 12 per cento ha altre destinazioni finali. E’ diventato, insomma, il materiale fondamentale della nuova èra digitale, come il carbone e il petrolio lo sono stati nella prima e nella seconda rivoluzione industriale. Ma non è il solo.
Strategici sono ormai tutti i 17 elementi chiamati metalli rari: Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio, Lutezio, Ittrio, Promezio e Scandio. Per loro ci si accapiglia, si combatte, si uccide in Congo come in Myanmar, in Afghanistan, in Kazakistan, in America Latina. C’è chi parla di colonialismo minerario perché ancora una volta il gioco delle grandi potenze è segnato dalla conquista di risorse che si ricavano dalla terra, alcune delle quali destinate ad esaurirsi molto presto.
Il Salar de Unuy è la più grande riserva al mondo, e la Bolivia insieme all’Argentina e al Cile forma il “triangolo del litio”, dove si trova il 70 per cento delle riserve finora stimate, pari a 14 milioni di tonnellate. L’America latina, del resto, possiede terre rare e “metalli tecnologici” per un totale di 50 milioni di tonnellate, il 40 per cento dell’offerta globale. Solo in Bolivia le risorse di litio sarebbero pari a 21 milioni di tonnellate. Segue l’Argentina con 17 milioni di tonnellate e il Cile, con 9 milioni. Mentre il Brasile è il maggiore produttore mondiale di niobio, con 59 mila tonnellate estratte nel 2019 e 11 milioni di tonnellate di riserve accertate. E poi c’è il coltan, componente cruciale per cellulari e videocamere, estratto con tecniche arretrate e manodopera indigena in Colombia, che possiede il 5 per cento delle riserve globali.
Dalle Ande alla Tesla è un lungo viaggio, ancora più lungo quello che porta a Pechino. La Cina possiede anch’essa importanti riserve, così come l’Australia, che scava sotto terra per estrarre il litio ed è ancora il principale fornitore (61 per cento della produzione mondiale) seguito a distanza da Cile (18 per cento), Cina (9 per cento) e Argentina (8 per cento). Giappone, Cina e Corea del sud hanno dominato finora il mercato delle importazioni. La maggior parte del litio viene estratta dalle Cinque sorelle, due americane (Albermarle e Livent), una cilena (Sqm) e due cinesi (Tianqi Lithium e Ganfeng). Le prime tre hanno una quota di mercato del 66 per cento divisa tra Albermale, Sqm e Tianqi, che controlla ormai anche la più grande miniera australiana, la Greenbushes.
Modo (gruppo Volkswagen) stima che la domanda di batterie ricaricabili aumenterà di sei volte entro il 2028, di qui la corsa al litio e alle terre rare. Una cuccagna per i talebani se solo riuscissero a sfruttare quel che cela il suolo dell’Afghanistan. Secondo studi recenti, infatti, sotto i sandali degli scolari coranici diventati signori della guerra ci sarebbe un controvalore potenziale stimato in mille miliardi di dollari, che potrebbe arrivare facilmente a tremila. Gli americani lo sapevano molto bene. Nel 2006 l’agenzia scientifica governativa, la United States Geological Survey, diede il via ai rilevamenti aerei delle risorse minerarie, con l’ausilio di apparecchiature avanzate installate su di un aereo Orion P-3 della Marina statunitense. Dopo gli esiti strabilianti delle prime indagini, nel 2007 l’Usgs cominciò quelle che vennero definite “le più complete analisi geologiche mai condotte”. I risultati lasciarono tutti a bocca aperta: il sottosuolo afghano conteneva fino a 60 milioni di tonnellate di rame e fino a 2,2 miliardi di tonnellate di ferro, e poi vene di alluminio, oro, argento, zinco, mercurio e litio. Senza dimenticare 1,4 milioni di tonnellate di Rare Earth Elements (REE), come lantanio, cerio, neodimio. Lo sapevano anche i russi, ma allora non sembravano risorse strategiche.
Nessuno è riuscito a metter le mani su quell’enorme potenziale minerario, ci riusciranno i cinesi? In Argentina Pechino controlla il 41 per cento della produzione e il 37 per cento delle riserve di terre rare; in Australia il 58 per cento della produzione e il 19 per cento delle riserve; in Bolivia partecipa al cento per cento nel settore tramite un accordo azionario, così come in Brasile; in Cile al 67 per cento, nella Repubblica popolare del Congo influenza oltre il 52 per cento della produzione di cobalto con quote di partecipazione e accordi di fornitura; in Sudafrica è in tutti i principali siti di estrazione e lavorazione. Anche se vanta una ricca dotazione domestica, la Cina non ha riserve sufficienti delle tre risorse minerarie vitali per le sue ambizioni tecnologiche: cobalto, metalli del gruppo del platino e appunto litio. Da tempo sta anche cercando di espandere la sua posizione sul mercato del vanadio e della grafite, assicurando forniture aggiuntive e costruendo catene di approvvigionamento integrate. Il vanadio è un metallo di transizione utilizzato nelle batterie a flusso, nei magneti superconduttori e nelle leghe ad alta resistenza per motori a reazione e aerei supersonici. Le aziende cinesi producono già il 56 per cento del vanadio mondiale e il paese possiede il 48 per cento delle riserve. Ma a Pechino non basta e va a fare compere anche in Russia, nell’ambito di quella che la Cina ha definito “un’alleanza invincibile”, siglata in Afghanistan in seguito al ritiro americano e confermata adesso in Kazakistan, primo produttore al mondo di uranio, secondo per l’estrazione di bitcoin dopo gli Stati Uniti (il 18 per cento di tutti i calcoli nei supercomputer avvengono nel paese asiatico), gran fornitore di gas e petrolio anche all’Italia.
La rivolta contro il regime è scoppiata per il rincaro del più comune metano. Il paese ne è ricco, ma serve soprattutto a esportarlo e incassare dollari. L’intervento russo per “riportare l’ordine” ha avuto il pieno appoggio di Pechino e mostra che il più grande paese dell’Asia centrale è diventato, insieme all’Afghanistan, la posta di un nuovo Grande Gioco, diverso da quello raccontato da Rudyard Kipling nelle sue corrispondenze per il London Times, soprattutto perché l’occidente non è più protagonista, ma spettatore: le carte sono in mano alla Russia neo zarista e alla Cina, la nuova potenza globale. Il brullo altopiano afgano ha bruciato il colonialismo britannico, sconfitto l’espansionismo russo e umiliato l’orgoglio americano, adesso è lo snodo del nuovo equilibrio asiatico, ciò vale anche per il Kazakistan, cuore geografico di un continente che sia la Russia sia la Cina considerano il loro cortile di casa. Ma la geopolitica non si nutre solo di armi e di calcoli politici, gli eserciti hanno bisogno di rifornimenti, i regni e gli imperi di risorse materiali. E qui entrano in gioco le ricchezze del suolo e del sottosuolo.
Sfruttando le ricchissime risorse energetiche del Kazakistan – poco più di 18 milioni di abitanti, ma un territorio grande quanto tutta l’Europa occidentale – Nursultan Nazarbayev 81 anni, da trent’anni al potere, è rimasto sotto la tutela di Mosca, ma ha accolto a braccia aperte le compagnie occidentali, da Eni a Shell, da Chevron a General Electric: 161 miliardi di investimenti diretti nel 2020, di cui 30 solo dagli Stati Uniti, tre quarti di quelli dell’intera regione. Entro i suoi confini si trova circa il 60 per cento delle risorse minerarie dell’ex Unione sovietica, dal ferro al carbone, insieme a importanti riserve di petrolio (oltre 1,5 milioni di barili al giorno), metano, uranio. E poi, c’è la frontiera delle terre rare. Nel 2019 Nazarbayev ha lasciato la presidenza nelle mani del suo delfino Kassym-Jomart Tokayev, che ha compiuto una virata filocinese e cerca di emanciparsi dal proprio mentore rimasto uomo forte del regime. La statua del vecchio despota in trono abbattuta dai manifestanti diventa così il simbolo di un nuovo corso.
In Kazakistan si preparava un golpe, come dice la versione ufficiale? E organizzato da chi, dai fondamentalisti islamici? Non scherziamo. Se pensiamo a un complotto, dobbiamo chiederci a chi giova. La risposta è che finora giova a Mosca e a Pechino. L’orso russo e il dragone rosso hanno stretto la morsa senza che Stati Uniti ed Europa riuscissero a dire né a né ba. La Cina ha visto nella repressione della rivolta che ha provocato almeno 164 morti un’applicazione di quella che per lei è una divisione funzionale del lavoro nell’Asia centrale, dove Pechino preferisce una presenza militare limitata e per molti versi dietro le quinte: Xi Jinping lascia a Vladimir Putin il furore dell’arme e riserva per sé il bottino economico. L’America è lontana e ha ormai abbandonato qualsiasi ruolo in quella parte del mondo, non così l’Unione europea, la quale, però, è debole e disarmata, un nano politico-militare che a questo punto mette a rischio anche il gigante economico.
La competizione è accesa anche in Africa dove la Cina entra in contrasto con l’Europa o meglio con alcuni paesi a cominciare dalla Francia. La nuova Via della seta, la Belt and road iniziative, è in realtà una ragnatela che avvolge i cinque continenti. Nella fitta rete di partnership e alleanze strategiche nella quale è incautamente finita anche l’Italia, si è impigliata la Repubblica democratica del Congo (ex belga), dove esattamente un anno fa hanno perso la vita l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, uccisi in un assalto a un convoglio del World Food Programme sulla strada per Goma. Il Congo ospita il 51 per cento delle riserve mondiali di cobalto secondo gli ultimi calcoli dello Us Geological Survey ed è responsabile del 64 per cento della produzione globale. Per Pechino è essenziale. La Repubblica popolare cinese già nel 2019 controllava otto delle 14 compagnie coinvolte, ovvero circa la metà dell’output del paese. “Siamo uno dei paesi più ricchi del pianeta, eppure i miei compatrioti sono tra i più poveri al mondo – lamenta il medico congolese Premio Nobel per la Pace Denis Mukwege – L’inquietante realtà è che proprio l’abbondanza delle nostre risorse naturali, oro, coltan, cobalto e altri minerali strategici, è causa primaria di guerre, violenza estrema e povertà assoluta”.
Fino a oggi, sarebbero circa 6 milioni i morti per cause dirette e indirette del conflitto, a essi s’aggiungono 4 milioni i profughi. “Quando guidate la vostra auto elettrica o quando usate il vostro smartphone – continua il dottor Mukwege – prendetevi un minuto per riflettere sul costo umano che c’è dietro la produzione di questi oggetti. Come consumatori, cerchiamo quanto meno di pretendere che siano realizzati nel rispetto della dignità umana. Girare la testa significa essere complici”. Ma attenti a non esagerare sulla “colonizzazione cinese” dell’Africa. Pechino sta facendo i conti con una catena di difficoltà e fallimenti, quindi ha deciso un giro di vite sui crediti concessi a man bassa che non verranno mai restituiti da governi deboli e corrotti che impediscono il decollo dell’immenso continente. Molti investimenti si sono rivelati improduttivi, a cominciare da quelli infrastrutturali, anche per l’insorgere di veri e propri conflitti culturali.
Le risorse africane, d’altra parte, fanno gola a tutti, e l’uranio è in cima alla lista. La politica estera francese ha da tempo una dimensione “atomica”. Dalla force de frappe alle centrali elettriche l’approvvigionamento di materiale radioattivo è vitale. Il Niger nel cuore dell’Africa sahariana è il fornitore privilegiato e l’intervento militare in Mali nel 2012 al quale ha partecipato in modo attivo l’Italia, è servito non solo a bloccare l’espansione del fondamentalismo islamico, ma anche a proteggere il ricco, ma fragile vicino. Gli italiani non sono fuori dai giochi, al contrario, anche se tutto avviene in qualche modo sotto traccia. In Mali al fianco dei francesi (con i quali non mancano le scintille in altre aree africane, cominciando dalla Libia), in Afghanistan con gli americani.
In Kazakistan l’interesse nazionale si chiama gas: il metano per l’Italia è oggi risorsa strategica così come l’uranio lo è per la Francia. E la dipendenza da Mosca spinge a cercare alternative a tutto campo. Il 18 per cento dell’export kazako è diretto in Italia. L’Eni possiede il 16,8 per cento nel giacimento petrolifero di Kashgan sul mar Caspio e il 29,25 per cento nel gas di Karachanag. La stessa Eni ha una consistente presenza nella Repubblica del Congo (ex francese), sia con giacimenti off e on shore sia con la raffinazione. L’Enel opera da anni in Cile dove costruirà il più grande impianto fotovoltaico nel deserto di Atacama. Insieme a Siemens e Porsche una fabbrica in Patagonia per produrre carburante dall’aria e dall’acqua, combinando la CO2 catturata con l’idrogeno verde.
La politica estera la fanno i grandi gruppi a partecipazione statale e forse è un bene vista la debolezza dei partiti politici. Ciò significa che nel mondo ci sono gli italiani, non c’è l’Italia. Alcuni evocano con sincero rimpianto lo spirito di Enrico Mattei, ma è bruciato esattamente sessant’anni fa, in quel 27 ottobre 1962, tra le fiamme del suo aereo a Bascapè.