Cosa vuol dire quando lo Stato islamico attacca una prigione in Siria

Daniele Raineri

È dal 2019 che i curdi dicono di non potersi assumere la responsabilità di fare la guardia a migliaia di terroristi molto pericolosi in mezzo a un’area non sicura

Un preambolo che parte da dieci anni fa per arrivare a una notizia di due notti fa in Siria, ma si capirà il perché. Nell’estate 2012 in Iraq l’allora capo dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, lanciò una campagna grandiosa per risollevare le sorti del gruppo che comandava – che ancora non si era ripreso dalla crisi profonda del 2010. La campagna si chiamava “Rompere i muri” e consisteva in una serie di attacchi organizzati alle prigioni irachene per liberare i “fratelli” detenuti. La campagna aveva un doppio scopo: andarsi a riprendere i combattenti permetteva allo Stato islamico di riempire i vuoti nei suoi ranghi con persone esperte e motivate e questo era un bene, perché le reclute erano poche e acerbe, e inoltre dava un senso di sicurezza agli uomini di Baghdadi, perché lo Stato islamico non abbandonava i condannati nelle celle, li andava a liberare appena le condizioni lo permettevano. La campagna coincise con l’ascesa dello Stato islamico e culminò nel luglio 2013 con un assalto di grandi proporzioni alla prigione di Abu Ghraib, resa famosa quasi dieci anni prima dallo scandalo delle foto delle torture americane – ma ormai non c’erano più soldati americani da tempo in quella regione. Lo Stato islamico assaltò la prigione con due autobomba e una squadra mortai, liberò in massa i detenuti e filmò tutto per uno di quei video di propaganda che in quegli anni attiravano nuove reclute da tutto il mondo.

   

Da allora gli att acchi alle prigioni sono il segnale che lo Stato islamico nel suo oscillare perpetuo fra i periodi di clandestinità e i periodi di trionfo ha di nuovo raggiunto un livello operativo da temere. Giovedì notte la fazione terroristica  ha attaccato con un’autobomba e alcuni gruppi di fuoco il carcere di al Hasake, nella Siria orientale, dove le forze curde sorvegliano quasi quattromila irriducibili dello Stato islamico catturati durante la battaglia finale di Baghouz nel marzo 2019 – di almeno cinquanta nazionalità diverse, europei inclusi. All’inizio i curdi hanno detto che tutto era sotto controllo e che non c’era stata alcuna evasione, ma non era così. Almeno ottanta prigionieri sono fuggiti, tra loro anche tre leader di primo piano, i combattimenti sono durati tutta la notte e anche tutto ieri. Quando il Foglio aveva visitato la prigione, nel febbraio 2020, i detenuti ammassati nelle celle avevano detto che le regole della prigione impedivano alle notizie dall’esterno di filtrare fino a loro. Erano del tutto all’oscuro di quello che succedeva fuori. A volte, raccontavano le guardie curde, uomini dello Stato islamico si avvicinavano in automobile a portata d’orecchio dal carcere e sparavano colpi in aria, come a dire a chi era dentro: resistete, prima o poi arriveremo.

  

E’ successo. I gruppi di fuoco dello Stato islamico che sono rimasti nella zona avevano il compito di dare tempo ai detenuti di fuggire. Il terreno attorno a al Hasake è arido e pianeggiante, non è facile trovare un nascondiglio. La scelta di gennaio per l’assalto sembra ovvia. D’estate quella pianura sarebbe asfissiante per gli evasi in fuga. Dopo poco sono arrivati gli elicotteri Apache degli americani, a sparare bengala per illuminare l’area e a prendere di mira gli uomini dello Stato islamico che nel frattempo si erano trincerati nelle case attorno alla prigione e ci sono stati anche raid aerei con bombe. Le forze curde hanno chiesto a tutti gli abitanti della città di restare chiusi in casa, per facilitare le operazioni.

   

Nei combattimenti, durati tutta la giornata, sono morti almeno quaranta terroristi e venti curdi. L’occasione è così speciale che lo Stato islamico non ha pubblicato il suo bollettino settimanale che di solito esce il giovedì sera, al Naba, perché è probabile che voglia pubblicare un’edizione speciale con le notizie sull’operazione. Lo Stato islamico in Siria da mesi tiene un profilo basso e rinuncia a rivendicare molte operazioni, per dare una finta impressione di debolezza. Dal punto di vista della lotta al terrorismo quest’attacco alla prigione di al Hasake è come una fuga radioattiva da un reattore, un evento che non doveva succedere. Ma è dal 2019 che i curdi dicono di non potersi assumere la responsabilità di fare la guardia a migliaia di terroristi molto pericolosi in mezzo a un’area non sicura. 

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)