La strategia della prigionia di massa con lo Stato islamico non funziona

Daniele Raineri

Per tre anni ci siamo illusi che affidare i resti dell'Isis a curdi in Siria e dimenticarcene fosse una soluzione. Ora l'illusione è finita con un massacro

Tre anni fa, quando lo Stato islamico cessò di esistere al termine di una guerra violentissima grazie all’azione combinata delle milizie curde e dei bombardamenti da parte degli americani, ci fu un sospiro di sollievo generale. A quel punto venne l’idea, che fu concepita male ed eseguita in fretta, di chiudere i reduci del gruppo terrorista in alcune prigioni siriane sotto il controllo delle milizie curde. Si trattava di migliaia di combattenti di una cinquantina di nazionalità diverse e tra loro molti volontari europei. Le loro famiglie, decine di migliaia di donne e bambini, furono sistemate nel campo di detenzione di al Hol – una tendopoli eretta in mezzo al nulla. Era un’idea adottata in mancanza di soluzioni migliori, un caso da manuale di soluzione provvisoria per sempre: mettere i resti dello Stato islamico in alcuni contenitori nella speranza che qualcun altro se ne sarebbe occupato e che ce ne saremmo pure potuti dimenticare. L’idea non ha funzionato. Da tempo i contenitori perdevano e donne che erano chiuse dentro al Hol sono spuntate in libertà in altri luoghi grazie a reti clandestine di appoggio che le hanno aiutate a fuggire e a superare i controlli, fino ad arrivare persino in Europa. Adesso uno di questi contenitori è stato spaccato e c’è stata una perdita enorme e anche l’illusione si è rotta.

 

Giovedì notte lo Stato islamico ha dato l’assalto con due camion bomba alla prigione di al Hasake, nella Siria orientale, che conteneva più di tremila combattenti e ha abbattuto parti del muro di cinta. Ieri, cinque giorni dopo, i combattimenti nelle strade vicino alla prigione per riprendere il controllo dell’area erano ancora in corso. La colonna di terroristi di circa cento uomini che aveva attaccato la prigione dall’esterno si è fusa con altri terroristi che erano chiusi dentro e si è sparpagliata nella zona decisa a resistere fino alla morte, per facilitare la fuga di altri prigionieri – e tra loro  leader importanti. Anche gli aerei americani sono stati costretti a intervenire e a bombardare al Hasake per provare a interrompere l’evasione di massa e cominciare il lavoro di riconquista. Gli elicotteri passano le notti a sparare bengala per illuminare il terreno e rendere più difficile la fuga. Forze speciali americane e britanniche sono con discrezione sul posto per aiutare i curdi e dirigere i raid aerei, perché tutto avviene dentro a un centro abitato. I curdi hanno detto alla popolazione di stare chiusa nelle case e hanno vietato fino al 31 gennaio qualsiasi movimento in città, in entrata e in uscita. 

 

La situazione è imbarazzante per le milizie curde: la prima notte avevano detto che c’era stato un semplice “tentativo” di evasione senza successo, poi hanno dovuto via via ammettere che molte guardie sono state ammazzate e che centinaia di prigionieri sono scappati. Da anni in verità dicevano che non era possibile per loro assumersi la responsabilità di sorvegliare a tempo indeterminato migliaia di elementi molto pericolosi nel mezzo di un territorio dove lo Stato islamico riesce ancora a muoversi con efficienza. A novembre i curdi avevano scoperto una cellula che preparava un assalto alla prigione e avevano chiesto l’intervento degli aerei americani per far saltare in aria un camion bomba che avevano trovato durante la retata. Due mesi dopo l’assalto è arrivato lo stesso. Per ora il gruppo terrorista ha trasmesso cinque video di quello che succede dentro al carcere: un video di prigionieri liberati che corrono, un video con una ventina di guardie prese in ostaggio, un video di guardie ammazzate (forse le stesse), un video di un capo dello Stato islamico entrato dentro alla prigione che chiede ad alcuni detenuti di unirsi ai combattimenti. E prima o poi toccherà a al Hol. La strategia dei contenitori non funziona. Delegare per intero a entità deboli come i curdi siriani o al regime di Bashar el Assad o ai talebani in Afghanistan la lotta allo Stato islamico non è una soluzione.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)