Boris Johnson non si salva più
Tra ricordi e pensieri sui media, Adam Boulton, re della politica in tv, ci dice cosa si è rotto tra il premier e gli inglesi
"Non dirmi cosa devo pensare!”. Se Adam Boulton scrivesse un giorno un libro sulla sua carriera giornalistica, forse prenderebbe come spunto per il titolo un episodio diventato celebre tra gli appassionati di politica britannica. Era il 7 maggio del 2010 e dopo le elezioni dell’hung Parliament, il Parlamento bloccato, il re della politica raccontata in tv si rese coprotagonista di un alterco con Alastair Campbell, spin doctor di un New Labour che non voleva saperne di andare all’opposizione. Boulton sbottò, invitando Campbell a non mettergli in bocca cose che lui non aveva né mai pensato né pronunciato: non dirmi cosa devo pensare!
Eppure Thomas Adam Babington Boulton da Reading, Berkshire, 62 anni dei quali oltre la metà trascorsi tra la lobby parlamentare di Westminster e gli studi di Sky News come responsabile della redazione politica, non considera Campbell l’osso più duro con cui ha avuto a che fare. I suoi esordi sono stati tutt’altro che teneri con un altro mastino della comunicazione di Downing Street, Bernard Ingham, l’uomo di fiducia di Margaret Thatcher nelle relazioni con i media, ma sono stati gli ultimi anni i più duri. “I personaggi più difficili con cui ho trattato sono stati David Cameron, Theresa May e Boris Johnson”, dice l’anchorman ormai ex Sky: tre premier conservatori. “Negli ultimi anni l’accesso a Downing Street, e di conseguenza, ai premier è stato molto difficile. Vuoi per caratteristiche personali come per Cameron, che era molto distaccato e formale; vuoi per l’esplosione dei social media, che favoriscono la disintermediazione e creano un rapporto diretto tra politici ed elettori-telespettatori; vuoi perché questi politici sono attorniati da staff sempre più grandi che cercano di impedirti di avvicinarti a loro. Conosco George Osborne (l’ex cancelliere dello Scacchiere) da anni, e abbiamo delle conoscenze in comune, ma in sei anni non sono mai riuscito a intervistarlo quando era al numero 11 di Downing Street. E per Boris Johnson vale la stessa cosa. Fare una intervista in modo classico è impossibile. A volte capita che al seguito del premier ci sia un solo giornalista che raccoglie le domande di tutti e le pone a nome di tutte le testate”.
Boris Johnson: l’uomo del momento, alle prese con la propria sopravvivenza politica. La farà franca anche questa volta? Boulton è categorico: no. “Si arriverà al numero di lettere sufficienti (54) per andare al voto di fiducia del Partito conservatore e una volta arrivati lì molti che in questo momento formano la maggioranza silenziosa pro Johnson verranno alla luce per sfiduciarlo”. Johnson è da anni la stella polare della destra conservatrice: penna affilata del Telegraph e dello Spectator, leader decisivo nella campagna per la Brexit con il fine, neppure troppo celato, di sostituire Cameron a Downing Street. Perché ora alcuni Tory e l’elettorato lo stanno rigettando, il partygate, lo scandalo sulle feste a palazzo durante il lockdown, pesa davvero così tanto? “Pesa perché Johnson è stato un mezzo per i conservatori per ottenere una vittoria clamorosa nel 2019. Ma tutti hanno sempre saputo che Boris non era adatto a fare il premier. E’ un personaggio televisivo, è popolare, ma non è in grado di governare il paese. La pandemia ce lo ha drammaticamente confermato. E il partygate è stata l’ultima goccia, anche gli elettori hanno capito che di Johnson non ci si può fidare e che se a Downing Street regna la confusione la colpa è principalmente sua. Le sue promesse sul ‘levelling up’ – il riequilibrio tra le aree più prospere e quelle più depresse del paese – sono rimaste lettera morta, così come sull’economia non sembra in grado di plasmare una politica coerente. Il suo primo direttore di giornale, Max Hastings, si è pentito per avergli dato una piattaforma dove esprimersi e diventare una celebrità”.
Il Regno Unito attende le conclusioni di Sue Grey, la civil servant incaricata di fare luce su quanto accaduto. Johnson ha risposto a chi chiedeva le sue dimissioni – come l’ex ministro per la Brexit, David Davis – che aspetta “l’esito dell’inchiesta”. Non ha escluso le dimissioni ma il suo entourage ha fatto sapere che intende battersi contro una eventuale mozione di sfiducia. “In questo momento – dice Boulton – il primo ministro non ha contro soltanto i deputati del cosiddetto blue wall (che era rosso Labour ma ora è conservatore) che temono di perdere il loro seggio come Christian Wakefield, il parlamentare di Bury South passato clamorosamente dai Tory al Labour la settimana scorsa. Ci sono altri gruppi contrari a Johnson che non tollerano più un governo che ha perso, per usare una antica espressione di Gordon Brown, il suo moral compass, la sua moralità. Arcibrexiteer come Steve Baler contestano le restrizioni alle libertà individuali decise da Johnson durante la pandemia. Il presidente del 1922 Committee, Sir Graham Brady, anche. Lord Frost si è dimesso a causa della politica economica del governo e la confusione sul Protocollo nordirlandese”. Soltanto ai dicembre, 99 deputati Tory hanno votato contro le misure prese dal premier per contenere la diffusione della variante Omicron.
Questa platea eterogenea non è ancora in grado di esprimere un candidato che possa sfidare e sconfiggere Johnson. “Alcuni stanno facendo campagna già da diverso tempo per sfidare il premier – sostiene Boulton – Rishi Sunak, il cancelliere dello Scacchiere, e Liz Truss, ministro degli Esteri, stanno cercando da tempo di ampliare i consensi. Ma non sono i soli. Michael Gove, oggi al governo, è il conservatore che ha più esperienza: è naturale che si guardi a lui. Ma io non escluderei nemmeno Priti Patel, ministro dell’Interno. La mia non è una preferenza personale, Patel ha delle idee che sono pericolosamente troppo di destra per me, ma una valutazione che si basa sulla sua popolarità presso la base del partito. Forse il candidato migliore sarebbe Jeremy Hunt, l’attuale presidente della commissione Salute a Westminster. E’ il più preparato ma è anche troppo alla sinistra del partito per essere gradito alla base”.
Insomma, per l’ex presentatore di All Out Politics e Sunday Live With Adam Boulton, Johnson sarebbe a fine corsa. Se BoJo è, come si dice, “toast”, il Labour ha anch’esso i suoi problemi nonostante i sondaggi gli assegnino un vantaggio quasi a due cifre sui Tory. Non sembra esserci un sentimento popolare pro Labour come ci fu nel 1997 per Tony Blair: molti si rivolgono al leader, Keir Starmer perché disgustati, da Johnson e stanchi dopo dodici anni di governo Tory. “Quando è stato eletto leader del Labour, Starmer non ha riabilitato subito il blairismo. Doveva tenersi buona anche l’ala sinistra del partito, i reduci del corbynismo”, dice Boulton, che dal 2006 è sposato con Anji Hunter, che in passato ha lavorato con l’ex premier Blair. “Ora si è spostato dal centro del partito al centrodestra, affermando che Blair è un modello vincente e che merita il cavalierato che gli è stato assegnato”.
Anche se i demeriti del governo sono tanti, Starmer ha compiuto delle mosse intelligenti: ha riaffermato il carattere patriottico del partito; è intervenuto sul Daily Telegraph per mettere in guardia il pubblico inglese sul pericolo della minaccia russa e per accreditarsi come leader credibile in politica estera e di difesa. Dopo essere stato l’architetto della politica fallimentare del Labour nel post Brexit, Starmer ha detto che, qualora dovesse tornare al governo, il Labour non cambierà il rapporto tra Londra e Bruxelles ma “cercherà di fare funzionare l’accordo stipulato da Johnson”. Le minacce per l’ex procuratore generale della Corona vengono dalla sinistra interna al partito e dall’accoglienza che gli hanno tributato i sindacati. La nuova leader di Unite, uno dei maggiori sindacati affiliati, Sharon Graham, non si è nemmeno presentata alla conferenza del partito e ha minacciato il taglio dei fondi. “Questo, però – sottolinea Boulton con un sorriso – è stato, in realtà, un favore involontario a Starmer, che così può presentarsi come leader non a rimorchio delle Unions, a differenza del suo predecessore. Se poi Jeremy Corbyn, come pare, vuole fondare davvero un partito tutto suo, per Starmer le buone notizie sono due”. Boulton crede che molto probabilmente il Labour otterrà il maggior numero di seggi alle prossime elezioni – del 2024 o, verosimilmente del 2023 – e formerà un governo di minoranza.
Sul finale della nostra conversazione, Boulton si sofferma su una carriera di quasi quaranta anni, iniziata a TVam e approdata nel 1989 a Sky con l’obiettivo di raccontare la politica britannica in modo più dinamico e moderno rispetto alla Bbc. Ci sono stati episodi drammatici e allo stesso tempo divertenti: come quando durante una riunione di capi di governo del Commonwealth a Cipro dovette dare all’allora premier conservatore John Major e al suo staff la notizia dell’attentato di Shankill Road a Belfast, il 23 ottobre 1993. “All’epoca la comunicazione non viaggiava veloce come adesso. Corsi in albergo a prendere il fax che mi era stato mandato dalla redazione per mostrare ai collaboratori di Major che dicevo la verità. Alla fine, mi credettero. Major dovette improvvisare una dichiarazione sul posto e siccome non aveva la cravatta mi chiesero di prestargli la mia”. O sempre in tema di Irlanda del nord: quando per la prima volta Gerry Adams e Martin McGuinness, i leader del Sinn Fein, arrivarono a Downing Street, Boulton si trovò a dare la notizia in fretta e furia in diretta tv senza alcun truccatore al suo fianco. Gli proposero di usare un make-up femminile, “tanto che quando arrivarono, Adams e McGuinness mi guardarono dicendo: Adam, ma come ti sei conciato?”. Alla fine 2021 il re del political broadcasting ha lasciato Sky News. In un’intervista al Times ha affermato che la direzione intrapresa dall’emittente per il futuro non lo convinceva. News sui telefonini, digitale, ampio spazio al data journalism. “Uno si fa delle domande e si dà delle risposte”, ha detto Boulton. La sua è stata quella di farsi da parte.