“Donna e nera” alla Corte suprema: oltre i simboli c'è di più
Lo scontro identitario, tra giudici, Virginia e Quirinale. E le parole di Reagan nel 1980
A sostituire Stephen Breyer, il giudice liberal della Corte suprema americana che ha annunciato il ritiro questa settimana, sarà una donna afroamericana. Questa è finora l’unica indicazione fornita dall’Amministrazione Biden sulla sostituzione, e non è nemmeno una sorpresa: le pressioni su Breyer perché si ritirasse e desse così ai democratici la possibilità di scegliere il successore esistono da tempo e da tempo si dice che il nuovo giudice della Corte sarà donna e sarà nera.
La prima domanda è: perché? Se il processo di sostituzione, tra nomina, audizioni e conferma al Senato, si concluderà entro le elezioni di metà mandato a novembre, non ci sarà battaglia politica, non con i repubblicani almeno, visto che i voti dei democratici sono sufficienti, sempre che non ci siano spaccature interne vistosissime (che già un po’ ci sono come dimostra la battaglia economica di Biden al Congresso). Si prospetta una successione pacifica, e quindi perché metterla subito sull’identitarismo, sul gender o sulla razza? Ci sarebbero tanti altri elementi di merito in questa nomina: Breyer è stato membro della più autorevole istituzione americana dal 1994, quasi trent’anni di lavoro in cui si è mostrato un giudice moderato e un grande ascoltatore, in grado di far parlare le anime diverse della Corte senza chiamare i riflettori su di sé ma tessendo, silenzioso e indispensabile, la trama dell’equilibrio tra i giudici. Dovendo sostituire, in una Corte che oggi è fortemente polarizzata e sbilanciata verso i conservatori (sei su nove), un elemento di raccordo come Breyer, si deve scegliere se optare per una figura simile e contare sulla capacità di trovare un confronto e quindi una compensazione interna, oppure se cercare un giudice combattivo, pronto a scontrarsi per contrastare la predominanza conservatrice.
Su scala più grande questo dilemma riguarda tutti i partiti liberali che si confrontano con movimenti populisti d’opposizione: si trova una sintesi insieme o ci si fa la guerra? Con i repubblicani a trazione trumpiana, il pur dialogante Biden, che ha iniziato la sua presidenza un anno fa con un benaugurante “la guerra è finita”, ha già perso lo slancio bipartisan. La nomina alla Corte racchiude in sé quindi una decisione profonda, simbolica e strategica: è da sempre così, per questo è tanto ambita dai presidenti, e lo è ancora più oggi come specchio di cosa vuole essere questa Amministrazione. Ma no, quel che è chiaro è che si sceglierà una donna.
Siamo sempre nell’ambito del “purché donna”, principio che in Italia stiamo sperimentando in diretta tv con l’elezione al Quirinale. Un esempio, anzi due.
Maria Elisabetta Alberti Casellati, che non ha mai fatto mistero della propria ambizione presidenziale, ha inviato messaggi perentori ai grandi elettori: mi dovete votare. Non è stata ascoltata, i franchi tiratori hanno fatto il loro mestiere, e la donna in quanto donna conservatrice e berlusconiana non ha potuto nemmeno godere di qualche ora da sfondatrice di soffitti di cristallo. Elisabetta Belloni, l’altra donna che fa capolino nelle cronache elettorali, ha invece un altro difetto che non era stato calcolato: non è conosciuta dal pubblico. E’ competente, è nota sia per la sua determinazione sia per la sua capacità di trattare con partiti e leader di destra e di sinistra, quindi trasversale, caratteristica che oggi sembra essere fondamentale per trovare l’accordo ampio che si va cercando, ma non è famosa, la casalinga di Voghera non sa chi sia. E’ così che abbiamo scoperto che il “purché donna” ha molte declinazioni, anche quella di essere infine trovata e scelta una donna proprio quando il rischio di andare a sbattere è molto alto.
L’esperienza dell’opzione identitaria non sta dando i frutti sperati da chi la propone. In America i conservatori hanno già iniziato a martellare sull’impostazione culturale della sinistra, con l’intero repertorio anti woke e dipingendo il prossimo giudice della Corte come un sostenitore di idee liberal estreme. Tale clamore nasconde quel che sta avvenendo in Virginia, lo stato in cui ha vinto un post trumpiano, Glenn Youngkin, e che sta diventando il laboratorio delle politiche anti woke. Youngkin ha dato pieni poteri ai genitori nelle scuole, sia sull’utilizzo delle mascherine (anche se ha dovuto fare un passo indietro perché i presidi vogliono avere voce in capitolo) sia sulla scelta dei libri e dei temi da approfondire nelle lezioni. I genitori sono stati invitati a segnalare quel che reputano “divisivo” nelle scelte educative delle scuole: chissà che inferno saranno le chat di classe e chissà se qualcuno ricorderà che per i suoi figli Youngkin non ha scelto le scuole pubbliche che sta regolamentando in questo modo ma istituti privati che si sono distinti, guarda un po’, per gli insegnamenti sull’inclusione, l’equità e la diversity. Di anomalia in anomalia poi, il nuovo procuratore generale della Virginia, il repubblicano Jason Miyares, ha licenziato il capo dell’ufficio legale dell’Università della Virginia e della Università George Mason, due democratici, con ragioni così vaghe che è venuto il sospetto che la sua fosse una mossa politica e che l’indipendenza accademica fosse a rischio. Il Washington Post conclude un suo editoriale sul tema così: “I repubblicani, in tutto il paese, vedono i campus universitari come il terreno fertile della wokness, della critical race theory e della cancel culture. Forse hanno trovato nel procuratore Miyares il sicario pronto a fare vendetta utilizzando lui stesso la cancellazione”.
La battaglia culturale sulle politiche identitarie è evidentemente molto rischiosa, e per questo l’approccio di Biden alla Corte suprema e l’indicazione di una donna nera come prossimo giudice hanno creato grandi polemiche. Resta un parziale alibi: la Corte non è un posto come gli altri ed è da sempre vero che la scelta dei giudici ha molto a che fare con la richiesta di rappresentanza della società americana, politica e identitaria. Lo spiegò bene il conservatore Ronald Reagan, quando annunciò che avrebbe nominato una donna alla Corte: disse che era contrario a “tokenism and false quotas”, cioè alle quote “per correggere ingiustizie passate”. Ma aggiunse: “So però anche che dentro alle linee guida dell’eccellenza, le nomine portano con sé un enorme significato simbolico. Questo ci permette di guidare attraverso l’esempio, per mostrare quanto profondo è il nostro impegno e per dare un valore a ciò che professiamo. Un modo per rendere vivo questo impegno è nominare una donna alla Corte suprema”. Era il 1980, l’anno successivo Sandra Day O’Connor sarebbe diventata la prima donna giudice della Corte suprema americana.
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