I Giochi (non solo olimpici) di Putin
Il presidente russo corre da Xi Jinping a sancire “un’amicizia senza limiti e territori vietati”
Quando Vladimir Putin è in difficoltà con l’occidente, compie un viaggio della speranza in oriente. La “svolta a est” del Cremlino era iniziata, per una coincidenza forse nemmeno troppo casuale, nei giorni di un’altra Olimpiade invernale, quella di Sochi nel 2014, negli stessi giorni in cui l’Ucraina rompeva l’abbraccio con Mosca nella rivolta sul Maidan. Qualcuno sostiene che proprio a Sochi Putin abbia maturato la decisione di annettere la Crimea, che l’avrebbe espulso dai salotti buoni della diplomazia occidentale, e spinto a cercare consolazione a Pechino, che lo ha accolto con passerelle rosse e sontuosi pacchetti di accordi bilaterali in qualunque campo della cooperazione.
Otto anni dopo, nel giorno dell’apertura dei Giochi di Pechino, mentre l’Ucraina è al centro dell’attenzione internazionale, circondata da tre lati da più di 100 mila soldati russi, l’alleanza russo-cinese, che molti osservatori moscoviti consideravano ormai stanca, è diventata strategica. Anzi, è una “amicizia senza limiti e territori vietati”, come dichiarano i due leader, che si incontrano dal vivo, senza mascherine, in quello che per Xi Jinping è il primo faccia a faccia con un ospite estero in due anni di pandemia. I segnali di un’intesa speciale sono tanti, e i due leader appaiono schierati sulle stesse posizioni. Almeno sulla carta, per la precisione, sulla carta di un’interminabile dichiarazione congiunta russo-cinese, che fin dal titolo – “sulle relazioni internazionali che entrano in una nuova epoca, e lo sviluppo globale stabile” – sembra riprendere le migliori tradizioni della retorica tardo-sovietica. E’ un documento verboso e onnicomprensivo, diviso in cinque capitoli che affrontano ogni aspetto delle relazioni internazionali, e non esitano a indicare il nemico comune: l’occidente a guida americana. Una divisione che non è mai stata così netta, nonostante i due leader si scaglino contro la “mentalità dei blocchi” e invochino un “mondo che non escluda nessuno”. Innanzitutto loro, e Xi e Putin esordiscono contestando la linea divisoria più ovvia con l’occidente: la democrazia. Dichiarano la Russia e la Cina dotate di “profonde tradizioni democratiche millenarie”, e a chi possa dubitare della democrazia in due dittature che prima erano totalitarismi comunisti e prima ancora monarchie assolute, rispondono che “la democrazia non segue un modello unico”, e che esistono “forme specifiche di democrazia” dettate dalle peculiarità nazionali, dove “solo il popolo ha il diritto di decidere se il suo stato è democratico”. Cosa che in assenza di elezioni libere appare complicata, ma Xi e Putin ci tengono a negare all’occidente il diritto di giudicarli, dichiarando che la “democrazia non è un privilegio di alcuni stati, è un valore universale”.
Gli Stati Uniti vengono menzionati esplicitamente, più volte, e sempre in un contesto critico: dalle accuse di inadempienza ai trattati sul bando delle armi biologiche alla “influenza negativa della strategia americana nell’Indo-Pacifico”. C’è spazio per le lamentele di entrambi: dai progetti giapponesi di scaricare nell’oceano l’acqua contaminata di Fukushima alla “politicizzazione della Opcw”, l’Organizzazione per il bando delle armi chimiche che ha convalidato i sospetti che il Cremlino abbia avvelenato Alexei Navalny con l’agente nervino Novichok. Putin condanna l’Aukus, l’alleanza Australia Gran Bretagna Stati Uniti di ovvia intenzione anticinese, e aderisce alla linea difensiva di Pechino sulle indagini sull’origine del coronavirus a Wuhan. Xi lo ricambia scagliandosi contro “i tentativi di negazionismo della storia della Seconda guerra mondiale”, un’ossessione del presidente russo che sogna una nuova Yalta. Ma soprattutto – ed è questa la novità davvero strategica – Xi Jinping si unisce al suo amico russo nell’esigere che la Nato non si allarghi ulteriormente, sostenendo l’ultimatum lanciato da Mosca agli americani per ottenere “garanzie di sicurezza vincolanti”. L’Ucraina insegue Putin anche a Pechino, e mentre le telecamere delle tv internazionali inquadrano il suo volto dall’espressione di ghiaccio durante il passaggio della delegazione degli atleti di Kiev, la dichiarazione congiunta russo-cinese condanna le “rivoluzioni colorate” e le “ingerenze esterne negli affari interni, con qualunque pretesto”, soprattutto nelle “regioni limitrofe comuni”. Se l’Ucraina in questo caso è lontana, Kazakistan e Kirghizistan sono vicini, come anche lo Xinjiang uiguro, prospettando un’alleanza in nome del controllo politico dell’Asia i cui contorni si sono intravisti quando, a inizio gennaio, Mosca ha inviato le sue truppe a reprimere la protesta kazaka.
Resta da capire quanto questa alleanza reggerà sul terreno. Un nemico comune è sempre un buon collante, ma le contraddizioni tra i due paesi non sono poche, e Mosca teme non del tutto a torto di poter venire fagocitata dalla potenza di Pechino. Chi comanda nella coppia lo si capisce già leggendo la dichiarazione dei due leader: mentre Putin aderisce alla dottrina di una sola Cina e si rifiuta di riconoscere Taiwan “in qualunque forma”, non c’è nemmeno una parola sulla Crimea annessa, che Xi Jinping non ha mai riconosciuto come territorio russo.