Lukashenka sta lasciando che Mosca occupi la Bielorussia?

Micol Flammini

Il dittatore di Minsk ha permesso prima l'occupazione psicologica e morale della sua presidenza rubata, ora per garantirsi la sopravvivenza permette che avvegna di fatto anche quella militare:  si sente protetto dalle truppe russe puntate contro l'Ucraina, troppe per un'esercitazione

Sergei Shoigu, il ministro della Difesa russo, è arrivato in Bielorussia e prima di andare  a supervisionare come sono state schierate le truppe russe sul territorio bielorusso, si è incontrato con Aljaksandr Lukashenka, il dittatore di Minsk  che vede nella sua alleanza con Mosca l’unico modo per rimanere al potere. Al suo fianco, Shoigu ha detto che quest’anno le manovre militari congiunte tra Russia e Bielorussia saranno più di venti e poi ha promesso di aiutare Minsk a fronteggiare la “linea distruttiva dell’occidente”. Il dieci febbraio inizieranno ufficialmente le esercitazioni militari coordinate tra Mosca e Minsk  – alcune manovre sono già partite – e la Russia ha mandato un numero di soldati e mezzi militari che secondo la Nato è troppo elevato per una semplice esercitazione. 

 

Il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, ha detto che si tratta dello spiegamento militare più grande dalla Guerra fredda con circa “30.000 soldati, forze operative Spetsnaz, jet da combattimento tra cui i Su-35, missili Iskander e i sistemi antiaereo S-400”. Tutto pericolosamente puntato verso il confine settentrionale dell’Ucraina che non passa giorno che non sia tormentata dalla domanda se la Russia attaccherà o meno. Per ora non ha attaccato, ma  attorno all’Ucraina non fa che crescere la crisi politica e diplomatica tra Mosca e il resto del mondo occidentale, così il Cremlino ha deciso di sfruttare la posizione del dittatore di Minsk, che in cambio di protezione ha di fatto lasciato occupare alle forze russe il territorio bielorusso. 

 

Otto anni fa, quando la Russia fece l’annessione della Crimea, Aljaksandr Lukashenka non stava con Mosca, ma con  Kiev, si asteneva dal riconoscerla, ma soprattutto si presentò alla cerimonia  per l’insediamento di Petro Poroshenko, primo presidente ucraino eletto dai cittadini dopo le proteste di Euromaidan e all’apparenza senza legami con il Cremlino, anzi in conflitto: Lukashenka era tra le prime file, tanto che sembrava calcolare se gli convenisse sbarazzarsi di Mosca per non fare la fine di Viktor Yanukovich, il predecessore di Poroshenko costretto a lasciare Kiev. Otto anni dopo Lukashenka dice senza indugio che la Crimea è Russia, ha soppresso con la violenza le proteste del suo stesso paese e accusa l’attuale presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, di voler ordire un complotto contro di lui. Russia e Bielorussia sono ormai alleate, Lukashenka non si permette più di andare contro Putin ed è diventato uno dei grimaldelli che Mosca usa contro l’occidente e  contro Kiev. Otto anni fa voleva fare da mediatore tra Kiev e Mosca, ora sta con Mosca e ha promesso di entrare in guerra al suo fianco e ha accusato l’occidente di voler negare la fratellanza tra la Russia e l’Ucraina, di voler allontanare Kiev dalla sfera di influenza che le è naturale. La scorsa settimana Lukashenka ha detto in un discorso alla nazione: “Non importa quello che vogliono gli altri, riporteremo la nostra Ucraina nell’ovile dello slavismo”. E ancora: “Farò di tutto affinché l’Ucraina diventi nostra … E’ la nostra Ucraina. Quella è la nostra gente. Questa non è emozione, ma la mia ferma convinzione”. Lukashenka dice quello che fa piacere a Putin e lo esalta. A unirli ormai c’è una rabbiosa  alleanza   fatta di prepotenza e paura della fine e dopo aver permesso l’occupazione psicologica e morale della sua presidenza da parte del Cremlino, ora, per rimanere al potere,  ha permesso anche quella militare della sua nazione e ha avviato un programma di cooperazione tecnico-militare fino al 2025 con Mosca. Russia e Bielorussia fanno anche parte della Csto, l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, un’alleanza difensiva che dovrebbe funzionare come la Nato, ma che a gennaio è andata in Kazakistan ad aiutare il presidente Qasym-Jomart Tokayev non contro un’invasione esterna, ma contro le proteste dei suoi cittadini. Neppure lo spregiudicato Lukashenka è arrivato a tanto, ma si è subito lanciato con entusiasmo nell’impresa kazaka pensando che magari un domani potrebbe averne bisogno lui. 

 

Il 27 febbraio in Bielorussia si terrà un referendum costituzionale dai contorni ancora molto vaghi. Ci si aspetta un’affluenza  bassa: che importanza può avere un referendum per una popolazione che ha visto il suo voto non rispettato nel 2020? Nessuno si fida e  soprattutto in molti hanno paura. Nonostante questo Lukashenka non disdegna la presenza dei militari russi sul suo territorio quando teme delle proteste, e le esercitazioni militari, come sono iniziate in anticipo, potrebbero finire in ritardo: la data  stabilita per la fine  è il 20 febbraio. Nessuna delle sue azioni è per la Bielorussia, tutto è solo per la sua sopravvivenza al potere e così si è aggiunto a quello che un gruppo di intellettuali russi ha definito “il partito della guerra”. 

 

Alcune firme importanti della cultura russa hanno pubblicato una lettera per esprimere tutta la loro contrarietà nei confronti delle azioni  contro l’Ucraina, dicendo che i cittadini russi sono ostaggio “dell’avventurismo militare che sta trasformando” la loro politica estera. A questo avventurismo, Lukashenka sta offrendo Minsk.  

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)