patti feticcio
La trappola degli accordi di Minsk
Occhio alla Russia quando insiste con il rispetto dei protocolli: li vede come un mezzo, non come una soluzione. Per l'Ucraina rappresentano una resa. Non soltanto dovrebbe concedere l'autonomia a Donestk e Lugansk, ma si annullerebbe anche la distanza tra aggredito (Kiev) e aggressore (Mosca)
C’è sempre una frase che salta fuori quando qualche funzionario russo parla di come risolvere il conflitto con l’Ucraina: il ritorno agli accordi di Minsk. Anche il presidente Vladimir Putin li menziona spesso e come lui il ministro degli Esteri Sergei Lavrov. Parlare di accordi mette la Russia nella condizione di mostrarsi disponibile a trattare, anzi a scendere a compromessi, e anche di puntare il dito contro Kiev, che di questi protocolli non vuole sentire parlare perché sono molto sbilanciati a favore di Mosca. Gli accordi di Minsk prevedono l’assegnazione di uno status speciale a Donetsk e Lugansk, che si sono autoproclamate repubbliche popolari. Kiev dovrebbe apportare delle modifiche costituzionali che garantirebbero ai filorussi alleati di Mosca delle leve di influenza importanti e anche se ad alcuni leader occidentali l’adempimento degli accordi può sembrare la soluzione di questo conflitto, il punto di arrivo, per il Cremlino è esattamente l’opposto: è il punto di partenza. Gli ucraini non accettano la soluzione offerta dagli accordi di Minsk innanzitutto perché hanno combattuto per otto anni nel Donbass, la guerra va avanti, è lenta ma imperterrita, le vittime sono più di tredicimila, e gli accordi vanificherebbero gli sforzi compiuti finora da Kiev per recuperare la parte del suo territorio finito sotto l’influenza dei russi.
L’Ucraina ha fatto molto per migliorare il suo esercito e ai cittadini desistere ora sembra inaccettabile. La maggior parte degli ucraini vuole una soluzione decisa nei confronti della Russia e soltanto il 26 per cento della popolazione approverebbe la modifica della Costituzione: il 59 per cento la rifiuta (sondaggio della Ilko Kucheriv Democratic Initiatives Foundation). Per gli ucraini il Donbass non è negoziabile e un qualsiasi accordo tra il loro governo e Mosca potrebbe causare disordini e proteste che fornirebbero al Cremlino il pretesto per intervenire. Di fronte a un’Ucraina divisa, per il governo sarebbe complicato mantenere il suo posto e per Putin sarebbe semplice instaurarne uno fantoccio. Mosca si attiverebbe con la scusa di proteggere i cittadini di lingua russa dai nazionalisti di estrema destra di Kiev. Qualora le manifestazioni non fossero così forti e divisive da giustificare un intervento da parte della Russia, concedere uno status speciale a Donetsk e Lugansk creerebbe comunque un precedente. Da alcuni anni i delegati di Mosca cercano di promuovere una soluzione simile in altre città, ma la popolazione per quanto di lingua russa non ha mostrato interesse. L’obiettivo finale di Mosca potrebbe essere arrivare a Odessa e privare l’Ucraina dell’accesso al mar Nero e al mare di Azov.
Per Kiev gli accordi di Minsk sono sempre stati un patto che non tiene in considerazione chi è l’aggredito e chi l’aggressore e se era poco pensabile attuarli sette anni fa, oggi, con otto anni di guerra e sacrifici alle spalle è insensato. Kiev dovrebbe riconoscere che la guerra non è stata un’aggressione da parte di Mosca ma un conflitto civile; dovrebbe consentire che i governi fantoccio di Donetsk e Lugansk vengano considerati legittimi, concedere autonomia al Donbass occupato, concedere l’amnistia ai collaboratori di Mosca e ai mercenari. Per la Russia invece gli accordi sono molto vantaggiosi, le sono stati cuciti su misura, non soltanto perché potrebbe sfruttare le conseguenze che ne deriverebbero ma le scrollerebbero anche di dosso ogni responsabilità riguardo all’occupazione della regione orientale dell’Ucraina iniziata otto anni fa.
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