Viaggio in Lituania, ai confini della democrazia
La bandiera della Nato sventola sui palazzi di Vilnius, la capitale lituana, dove ogni strada dice: ci siamo difesi ieri, lo faremo anche oggi. La minaccia della Russia, quella della Cina e noi europei. Reportage a due passi dalla nuova guerra fredda
Il cartello di benvenuto con scritto “Ciao mondo! Sveiki!” è ancora lì. Una cicogna bianca, simbolo della Lituania, e l’orso nero di Formosa, simbolo di Taiwan, salutano chi entra. Sopra c’è una data: 18 novembre 2021, il giorno in cui questo ufficio ha aperto al pubblico. Per trovare il numero civico giusto c’è voluto un po’: siamo su una strada di Vilnius, la capitale della Lituania, dedicata a Jokubo Jasinskio, un comandante lituano che alla fine del Settecento partecipò all’insurrezione di Kościuszko contro l’impero russo e il regno di Prussia. Questo non è il centro della capitale con quelle aree eleganti e prestigiose che di solito ospitano le sedi diplomatiche straniere. Perché questa non è una sede diplomatica come le altre. Il sedicesimo piano di un palazzo a vetri è quasi completamente occupato dalla rappresentanza diplomatica di Taiwan in Lituania.
Eric Huang, il diplomatico che rappresenta il governo taiwanese, ci accoglie sorridente nel suo ufficio con una vista stupenda sulla città innevata e il Neris, il fiume che simbolicamente unisce la Lituania alla Bielorussia. Siamo nel primo ufficio di rappresentanza di Taiwan che viene aperto in un paese dell’Ue negli ultimi vent’anni, il primo in assoluto che chiama Taiwan con il suo nome, anche nella targa in lingua cinese sopra al campanello. Questo ufficio è da mesi la causa di uno scontro violentissimo tra Europa e Cina, perché Pechino considera l’isola di Taiwan parte del proprio territorio. Per questo non vuole che si usi la parola “Taiwan”, preferisce “Taipei”, anche alle Olimpiadi, perché a nessuno venga in mente che quel territorio sia indipendente.
“Ci sono molte opportunità in Europa, specialmente nell’Europa centrale e nei paesi dell’est”, dice Huang. “Abbiamo sempre avuto forti legami economici e industriali con paesi europei come l’Italia, ma avevamo bisogno di potenziare la cooperazione con l’area dell’Europa centro-orientale”. Huang parla di “diversificazione” dell’economia, basata su princìpi comuni di trasparenza e diritti, e mai come oggi queste “nuove opportunità” tra paesi democratici vengono fuori dopo crisi geopolitiche e diplomatiche.
Mentre parliamo, sui social a Taiwan uno degli argomenti più discussi, rilanciati e cliccati è la moda streetwear lituana. Herin Hale, giornalista di base a Taipei, scrive su Twitter: “Non credevo che la Lituania fosse famosa per il suo stile”, e in effetti non lo era, solo che all’improvviso la politica internazionale ha fatto conoscere il piccolo paese baltico all’opinione pubblica taiwanese; e tutto sommato brand come labàdienà, cappellini e maglie extralarge e genderless, hanno molto in comune con la sottocultura hipster taiwanese.
“Le potenze autoritarie hanno sempre cercato, nella storia, di mettersi insieme per aiutarsi”, dice Huang, “anche se avevano degli obiettivi diversi. Al punto in cui siamo oggi dovremmo essere estremamente cauti. Non siamo in tempo di guerra, ma dobbiamo osservare molto da vicino certe tendenze per cercare di tenere al sicuro le democrazie e la libertà”. Huang descrive l’alleanza tra la Cina e la Russia con la metafora della “black box”, la scatola nera: nel settore tecnologico è un’espressione che definisce un sistema di cui conosciamo gli elementi che lo condizionano e gli effetti che provocano, ma non il suo meccanismo interno.
Come Taiwan con la Cina, anche la Lituania vive con una costante minaccia esistenziale. Oggi da queste parti non si parla d’altro che di Russia, delle truppe russe al confine con l’Ucraina e di ciò che viene definito un “game changer”, qualcosa che cambia la situazione anche per la Lituania: l’esercito russo è arrivato in Bielorussia per le esercitazioni militari congiunte. Dalle vetrate di questo palazzo basta guardare verso est: a poco più di trenta chilometri c’è il checkpoint Kotlovka, la porta orientale d’Europa, il confine con il regime di Aljaksandr Lukashenka, il miglior alleato del Cremlino. Se la Russia invadesse l’Ucraina, i lituani sarebbero costretti a chiedersi: siamo noi i prossimi? E’ una domanda che non si pone chi vive lontano dai confini contesi e minacciati dalle grandi potenze, ma da queste parti questa minaccia riguarda la vita di tutti i giorni, è la quotidianità di tutti. Nel 2008 il governo lituano aveva abolito la leva obbligatoria, ma nel 2015, un anno dopo l’invasione della Crimea da parte della Russia, l’ha reintrodotta. Finora non c’è stato mai bisogno di costringere o di richiamare qualcuno a servire nelle Forze armate, perché tutti i posti da nuovi soldati vengono coperti da volontari: per il 50 per cento sono donne.
La rappresaglia dell’ananas. “Il Cremlino è considerato il nemico numero uno. Pechino è il nuovo paese ostile”. Gli stoppini per candele che non arrivano più e il frutto “della libertà” che ha compensato il boicottaggio cinese
La sorte comune di Taiwan e Lituania crea una vicinanza ideale tra i due paesi, e contribuisce a costruire decine di punti di contatto, come se gli oltre ottomila chilometri di distanza tra Taipei e Vilnius non contassero, come se in questi due paesi le lezioni della storia avessero molto più peso – un peso speciale e doloroso – che nel resto del mondo.
Taiwan è considerato oggi un paese indipendente soltanto da una dozzina di governi al mondo, ma è un’isola, è protetta dall’America, e le incursioni nelle aree di identificazione aerea dei caccia cinesi sono (per ora) lontane dai centri abitati. Insomma, Taiwan è forse geograficamente avvantaggiata rispetto alla Lituania, che ha davanti ai suoi confini un leader con una strategia molto più muscolare. La Cina usa la coercizione economica, la Russia i carri armati. Per questo la Lituania, un paese con 2,7 milioni di abitanti, poco meno della città di Roma, nella sua storia non ha potuto far altro che contare sulle alleanze strategiche per difendersi dalle minacce: i paesi baltici, l’Unione europea, la Nato.
La bandiera blu con la rosa dei venti bianca dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del nord sventola davanti al palazzo del presidente Gitanas Nauseda. La neve a terra diventa ghiaccio e in alcuni punti è impossibile camminare, si scivola e basta. Sono i giorni più freddi del lungo inverno baltico e le strade di Vilnius si animano soltanto in alcuni momenti: quando smette di nevicare, quando la gente torna a casa dal lavoro. Alcuni caffè, soprattutto quelli eco-friendly come l’Huracán Coffee, sono frequentati soprattutto da chi cerca una pausa dal vento gelido – è anche grazie all’Huracán che in Lituania si è sviluppata una maniacale cultura del caffè, rigorosamente organico e biosostenibile: in locali come questo la musica si ascolta solo dal giradischi, tutto è riciclabile, e se si ordina una birra lo sguardo di condanna del barista è eloquente: “C’è solo analcolica”.
“Una mia amica ha un piccolo business, produce candele. Da qualche mese ha dovuto ridurre di molto la produzione perché il più grande produttore al mondo di stoppini per candele è la Cina, e ha iniziato ad avere difficoltà a importarli”. Ieva Balsiunaité ha trent’anni, ha studiato Diritti umani a SciencePo a Parigi e oggi è giornalista alla Lrt, l’emittente pubblica della Lituania. “La Russia è sempre stata qui. La conosciamo, la studiamo a scuola: il Cremlino è considerato il nemico numero uno. Ma la Cina oggi è un nuovo paese ostile”. Quando l’estate scorsa la Lituania ha deciso di aprire un ufficio di rappresentanza di Taiwan a Vilnius, tutti si aspettavano una reazione aggressiva da parte di Pechino per punire il paese che aveva osato usare la parola proibita. A distanza di tre mesi dall’apertura di quella sede istituzionale, però, le conseguenze di una prevedibile ritorsione economica da parte della Cina sono molto più estese di quanto il governo di Vilnius si aspettasse.
A dicembre Pechino ha bloccato gran parte delle importazioni dalla Lituania – secondo la Commissione europea il volume di merci è diminuito improvvisamente del 91 per cento rispetto allo stesso mese del 2020. Per farlo, il governo cinese ha usato la burocrazia doganale, rendendo difficile ottenere l’autorizzazione per l’ingresso nel paese per le merci lituane. “Bisogna dire chiaramente che quello che sta facendo la Cina con la Lituania è illegale. E’ illegale”, ripete il rappresentante Eric Huang quando gli chiediamo di questo boicottaggio economico contro la Lituania. E’ un metodo che Taiwan conosce bene, perché la tattica cinese di isolare economicamente i paesi che vanno contro le sue politiche va avanti almeno dal 2010: l’ha fatto con la Corea del sud che aveva istallato uno scudo antimissile americano sul proprio territorio; l’ha fatto con l’Australia che aveva chiesto un’indagine internazionale sul Covid; lo fa periodicamente con Taiwan. Il fatto è che negli ultimi anni, soprattutto da quando al governo è arrivato il Partito democratico guidato da Tsai Ing-wen, Taiwan ha iniziato a rovesciare la situazione e a giocarsela a modo suo: basta compromessi con la Cina. E così il governo di Taipei ha iniziato una politica di (ri)costruzione dell’identità taiwanese fieramente democratica. Non solo: ha cominciato a usare l’isolamento diplomatico rovesciandolo, per creare una specie di alleanza di paesi altrettanto fieramente democratici. Il caso di scuola è quello dell’ananas: l’anno scorso la Cina ha improvvisamente smesso di importare ananas da Taiwan per ragioni politiche, ma invece di mediare e negoziare con Pechino, Taipei ha fatto pubblicità ai suoi “ananas della libertà”. Risultato? L’export di ananas taiwanese è raddoppiato grazie alla domanda da paesi come Giappone, Australia, America. Il mese scorso, quando la Cina ha deciso di bloccare le importazioni dalla Lituania, oltre ventimila bottiglie di rum lituano destinate alla Cina sono state acquistate dal governo taiwanese, che ha annunciato l’operazione con un messaggio su Facebook: “Sosteniamo la Lituania”.
Ma il problema non è solo commerciale, perché nel frattempo una parte dello scontro si è già consumato sul piano diplomatico. Il 10 agosto del 2021, in un comunicato particolarmente duro, il portavoce del ministero degli Esteri cinese aveva detto che usare il nome di Taiwan “vìola sfacciatamente lo spirito delle relazioni diplomatiche tra Cina e Lituania. La Cina ha deciso di richiamare il suo ambasciatore in Lituania e ha chiesto al governo lituano di richiamare il suo ambasciatore in Cina”. Neanche un mese dopo, Diana Mickeviciene, ambasciatrice lituana a Pechino, era su un volo per Vilnius. E a fine anno anche i rimanenti diciannove dipendenti lituani dell’ambasciata a Pechino sono stati fatti rientrare, di fatto chiudendo tutte le operazioni nella capitale cinese. Il ministero degli Esteri lituano all’epoca disse che la decisione era stata presa in risposta alle pressioni diplomatiche cinesi, ma diverse fonti diplomatiche avevano poi raccontato ai giornali che il problema era piuttosto “di sicurezza”: i lituani in Cina non si sentivano più al sicuro.
Il Wall Street Journal ha scritto che la Lituania in questo momento è un “ostaggio economico” di Pechino. Altri giornali hanno parlato di “bullismo”, di “Davide contro Golia”. Ma la Cina non molla. Giovedì scorso, le dogane cinesi hanno comunicato di aver bloccato l’importazione anche del manzo lituano, dopo alcol, prodotti caseari, birra. E sembra che alla Cina non interessi nemmeno il fatto che la coercizione economica contro Vilnius sia ormai ufficialmente diventata un problema europeo, soprattutto da quando le aziende e le multinazionali cinesi hanno iniziato a interrompere il business con molte aziende dell’Ue che hanno parti della catena produttiva che vengono dalla Lituania. Bruxelles sta cercando di dotarsi di uno strumento “anti coercizione”, e il mese scorso ha deciso di aprire una controversia contro la Cina all’Organizzazione mondiale del commercio. Nel giro di quattro settimane, America, Regno Unito, Australia e Canada hanno deciso di partecipare alla controversia come denuncianti. Il processo dell’Omc è lungo e tortuoso, ma a oggi praticamente tutto il G7 è contro le pratiche coercitive cinesi.
Non solo. L’insistenza con cui il governo di Pechino percorre la strada dello stritolamento economico funziona poco dal punto di vista politico, perché l’interscambio commerciale tra il paese baltico e il Dragone non è mai stato vitale per la Lituania – l’anno scorso la Cina ha importato soltanto 775 tonnellate di carne bovina dal paese. Si tratta più di un messaggio alle economie occidentali: possiamo farlo. E di un modo per terrorizzare i piccoli imprenditori lituani. Di recente si è parlato molto di un sondaggio, commissionato dal ministero degli Esteri di Vilnius, sulla politica estera del governo di coalizione guidato dalla popolare Ingrida Šimonytéė.
“Per decenni il mondo ha creduto alla propaganda sovietica che diceva che eravamo felici di non avere le nostre libertà, di far parte della ‘famiglia sovietica’, ma non era vero”. La democrazia qui “ce l’abbiamo nel sangue”
Tra le altre domande, il sondaggio chiedeva agli intervistati come valutavano la politica della Lituania nei confronti della Cina: solo il 13 per cento aveva dichiarato di sostenerla, mentre il 60 per cento ne aveva espresso un giudizio negativo. La fiducia dei cittadini nei confronti della politica estera dell’esecutivo è al 30 per cento, e il 47 per cento degli intervistati ha detto di non fidarsi. “Non ci bastava un solo nemico, ne abbiamo voluti due contemporaneamente”, dice ridendo un analista lituano di base a Bruxelles che preferisce restare anonimo per non rilasciare commenti ufficiali sulla politica governativa. “E’ vero che i grossi imprenditori hanno timore della Cina. Ed è anche vero che, alla fine, faremo ancora a lungo i conti con quel venti per cento di lituani nostalgici che preferirebbero il ritorno dell’Unione sovietica. Ma se parli con le persone, in linea di principio, sono d’accordo nel sostenere che tra i metodi di Mosca e di Pechino ci sia davvero poca differenza. E’ la storia a ricordarcelo”. Forse ha ragione il governo, che dice che la domanda di quel sondaggio era mal posta e fuorviante, o forse si tratta soprattutto di una questione generazionale, fatto sta che a parlare con la gente qui sembra che nessuno abbia dubbi sulla resistenza ai bulli, ed è qualcosa che probabilmente Pechino non si aspettava nella reazione lituana: “Tutti mi sembrano molto fieri di questo atteggiamento”, dice Ieva Balsiunaité, “soprattutto da quando Cina e Russia hanno fatto un fronte comune contro l’occidente”.
“La Lituania non ha cambiato la sua politica con la Cina all’improvviso, a novembre, con l’apertura dell’ufficio di Taiwan”, dice Mantas Adomenas, viceministro degli Esteri di Vilnius, latinista laureato al Gonville and Caius college di Cambridge. Adomenas è l’uomo chiave per capire la costruzione della politica internazionale della Lituania oggi. Mentre parliamo, il suo capo, il ministro degli Esteri Gabrielius Landsbergis, presidente del partito di centrodestra Unione della Patria, è in missione in Australia e discute di un’alleanza strategica inedita con Canberra, un “club esclusivo” di paesi che hanno subìto misure coercitive dalla Cina. Il viceministro Adomenas racconta quello che secondo lui è stato il momento in cui l’opinione pubblica lituana ha scoperto la Cina, e quindi ha scoperto anche Taiwan. “Il 23 agosto del 2019 abbiamo organizzato una manifestazione a favore di Hong Kong in piazza della Cattedrale a Vilnius”, dice. Nell’estate del 2019 si celebravano due anniversari importanti ai due capi opposti del mondo. Il 4 giugno, a Hong Kong, c’era stata l’annuale veglia per ricordare i trent’anni dal massacro di piazza Tiananmen, a causa della quale molti attivisti sono oggi in carcere. Il 23 agosto del 2019 in Estonia, Lettonia e Lituania si celebrava il trentesimo anniversario della catena baltica, la protesta che portò circa due milioni di persone a formare una catena umana unendo le tre capitali delle repubbliche socialiste sovietiche, che di lì a breve si sarebbero proclamate indipendenti. “Organizzammo la manifestazione per esprimere solidarietà con le proteste di Hong Kong. Ma a un certo punto arrivarono i contromanifestanti, con le bandiere con la falce e il martello” – e poche cose sono assurde come sventolare la falce e martello in piazza in un paese come questo. Alcuni cittadini cinesi, che la polizia lituana avrebbe poi identificato come cittadini cinesi con permesso di lavoro nel paese baltico ma anche personale dell’ambasciata della Repubblica popolare cinese a Vilnius, compreso l’ambasciatore, iniziarono a inveire contro i manifestanti e gli attivisti, e si arrivò ad alcuni momenti di tensione: “Se ne parlò molto, nelle settimane successive”, dice Adomenas. Fu il momento in cui la società lituana scoprì il nazionalismo e l’assertività cinese, ma l’attivismo contro l’autoritarismo di Pechino era lì già da tempo.
A cinque minuti a piedi dall’università di Vilnius, una delle più prestigiose d’Europa, c’è un ponte sul fiume Vilnia che è il confine con una “repubblica indipendente”. Užupis è un luogo strano che sembra il Pigneto a Roma, ma riuscito meglio. E’ un posto di fricchettoni e di murales, di attivismo e idealismo. Si passa in perfetta continuità davanti a librerie, sculture a cielo aperto e negozi di “sciamani baltici” che vendono boomerang sacri e cilum. La “Repubblica di Užupis” si è resa indipendente, diciamo così, nel 1998. La leggenda degli attivisti narra che all’inizio degli anni Novanta quest’area di Vilnius fosse tra le più malfamate, e i prezzi delle case tra i più bassi delle città lituane (non è chiaro quale fosse la causa e quale l’effetto del fenomeno). Poi un collettivo di artisti decise di cambiare le cose, e questo quartiere è diventato una specie di acceleratore di start up artistiche, con mostre temporanee, attività culturali e gadget da vendere ai turisti per sostenere la microeconomia locale. In tempi non sospetti il quartiere è stato reso incredibilmente instagram-friendly, e questo piace molto ai visitatori internazionali (prima della pandemia erano in media ottocentomila l’anno, la maggior parte da Germania, Polonia e Russia, ma anche dalla Cina e da Israele). La “Repubblica di Užupis” ha anche un suo “governo”, i suoi francobolli e una sua Costituzione appesa su una delle strade principali del quartiere e tradotta in tutte le lingue del mondo, con articoli come: “Tutti hanno il diritto di apprezzare la propria scarsa importanza”, “Tutti hanno il diritto di avere dei dubbi, ma non è obbligatorio” e “Tutti hanno il diritto di badare al cane fino a quando uno dei due muore”. A passeggiare per Užupis sembra quasi che quel diritto all’esistenza, quella rivendicazione di contare qualcosa, di esserci, sia ormai parte integrante dell’identità lituana. Che è attenta anche alle vicende che avvengono fuori dai propri confini: il Dalai lama, leader spirituale del Tibet, è “cittadino onorario di Užupis” dal 2001, l’anno del suo primo viaggio a Vilnius. La piazza all’ingresso di Užupis si chiama “piazza Tibet”, tra le vie dell’area almeno un paio di murales sono dedicati a Hong Kong.
Venerdì scorso si è celebrato il trentunesimo anniversario del giorno in cui qualcuno ha detto alla Lituania: tu esisti. E’ stata l’Islanda il primo paese a riconoscere la Repubblica di Lituania indipendente, l’11 febbraio del 1991, fregandosene della successiva “punizione” del blocco sovietico. Un mese prima, il 13 gennaio, c’era stata quella che viene ricordata la “domenica del sangue”: la Lituania si era dichiarata indipendente dall’Unione sovietica l’11 marzo del 1990, ma l’Urss non se n’era mai davvero andata, e in quel fine settimana d’inizio gennaio tentò la “riconquista” militare della Lituania. Non ci riuscì, perché i cittadini lituani fermarono fisicamente quello che consideravano un atto di aggressione contro una nazione sovrana. Il primo presidente della Repubblica lituana fu Vytautas Landsbergis, uno dei più importanti politici della Lituania moderna – è il nonno dell’attuale ministro degli Esteri di Vilnius, Gabrielius Landsbergis, cioè il volto della diplomazia lituana contro il bullismo di Russia e Cina.
“È dentro di noi, ce l’abbiamo nel sangue”, dice Dovile Sakaliene, quarantatré anni, parlamentare del Partito socialdemocratico di Lituania. “Il mondo per decenni ha creduto alla propaganda sovietica che diceva che noi eravamo felici di non avere le nostre libertà, di far parte della ‘famiglia sovietica’, ma non era vero. Mio nonno è stato deportato in Siberia, mia nonna condannata per aver aiutato la resistenza, vengo da una famiglia di persone che sono state torturate. Noi sappiamo come funziona la propaganda e come i paesi autoritari spezzano le vite dei cittadini e delle loro famiglie”. Incontriamo Dovile Sakaliene nella sede del Parlamento lituano, il palazzo del Seimas, in un piccolo ufficio pieno di carte e poster che condivide con due collaboratori. Sakaliene lavora da tempo con i dissidenti bielorussi in esilio in Lituania, ed è una delle politiche più attive per la difesa del sistema democratico e dei diritti umani, anche in Cina. Per questo nel marzo del 2021 è stata inserita nella “black list” degli individui europei sgraditi a Pechino: una risposta alle sanzioni del Parlamento europeo contro le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang. Pur sedendo tra i banchi dell’opposizione, Sakaliene ritiene che la posizione del governo di Vilnius per la difesa di questi princìpi sia inevitabile, “ma è importante anche costruire un giusto dialogo con la società, farle capire le nostre decisioni e darle degli strumenti per conoscere in anticipo le conseguenze e i rischi”. Per questo, nel caso della Cina per esempio, sarebbe stato importante “costruire un piano di mitigazione, soprattutto coordinandoci con i partner internazionali e l’Ue”. Ma le decisioni della Lituania sarebbero state comunque le stesse, spiega Sakaliene, perché sono state prese per “proteggere il nostro paese: uscire dalla piattaforma guidata da Pechino del 17+1, per esempio, costruita essenzialmente per distruggere l’alleanza europea, e poi escludere le aziende cinesi dal nostro 5G, sono tutte cose che abbiamo analizzato collettivamente e abbiamo deciso semplicemente di difenderci”.
“Quello che è importante capire è che noi, la Lituania, l’Unione europea e la Nato non siamo mai in una posizione offensiva, ma sempre difensiva. Paesi come la Russia e la Cina sono invece nella direzione dell’ostilità”. Secondo Sakaliene la coercizione e la pressione politica da parte di Pechino colpisce non solo la Lituania come singolo paese “ma l’intero sistema europeo. Se la Cina dovesse riuscire nel suo intento, vorrebbe dire che la Repubblica popolare sarà in grado di cambiare il nostro mercato con un sistema sinocentrico, e credo sia un percorso molto pericoloso”. Il comportamento della Russia nelle ultime settimane è cambiato, e anche questo non riguarda solo i singoli paesi ma “l’intero blocco democratico”. “D’altra parte, Nato, America, Europa hanno dimostrato di essere una buona squadra con un ottimo coordinamento: possiamo essere molto efficienti lavorando insieme”. Certe situazioni di crisi, per Sakaliene, smentiscono il luogo comune secondo il quale solo i paesi autoritari sanno essere efficienti, perché le decisioni vengono prese da una cerchia ristretta di persone: “Anche i paesi democratici e le alleanze sanno discutere e trovare delle soluzioni comuni”.
La Lituania è un paese con le sue ferite ancora aperte, che aspetta. Come a Taiwan, da queste parti non c’è tempo per il pessimismo à la page sul declino occidentale. Nessuno suona i tamburi di guerra, ma allo stesso tempo la bandiera della Nato sventola davanti agli uffici pubblici, e il pacifismo non è un’aspirazione fanciullesca, ma ha un significato molto preciso: ci siamo difesi ieri, sapremo difenderci domani. E’ forse questo il vero cuore dell’Europa.
Dalle piazze ai palazzi