i tempi di mosca

Putin è in guerra perenne. La strategia lunga per non perdere il suo potere

Punta un carro armato alla volta, disintegra i suoi oppositori un processo alla volta

Micol Flammini

I fronti sono due, uno esterno e l’altro interno. L’Ucraina e Navalny. Tutti e due servono per mantenere in piedi il potere del presidente russo che con la sua nostalgia efferata è convinto di avere a disposizione epoche

La guerra che non è ancora scoppiata tra Russia e Ucraina non è neppure ancora finita. I segnali vanno messi in fila prima di essere presi per buoni e il Cremlino, che da mesi ci mostra i suoi carri armati che vengono spostati da una parte all’altra della nazione, ieri ha deciso di farci vedere le stesse immagini, ma al contrario. Molti mezzi militari rimangono al loro posto, con le armi puntate verso l’Ucraina, ma questo è il momento in cui Mosca vuole mostrarci la ritirata, non la guerra. Tutto ciò che sta accadendo ai confini di Kiev è molto esposto e a questa esposizione, per fini diversi, hanno contribuito sia gli Stati Uniti sia la Russia. 

 

Il potere di Vladimir Putin è un monolite, da anni si scommette sulla sua caduta, su una rivolta interna, su uno scricchiolio: il leader è stanco, invecchiato, vede la realtà ormai cambiata con gli occhi di una spia degli anni della Guerra fredda. Era il presidente giovane, e la sua giovinezza aveva incantato anche l’occidente che sperava in un’apertura della Russia. L’apertura c’è stata, ma è stata fittizia ed è durata quanto è convenuto a Putin. Il presidente è sempre lì, prima o poi dovrà abituarsi a vivere senza il Cremlino, ma non è il momento, due anni fa ha fatto cambiare la Costituzione e così potrà essere rieletto per altri due mandati e tutte le scommesse sulla sua fine insegnano ormai soltanto  che sa benissimo come rimanere al suo posto. Per mantenere questo potere di granito ha usato una strategia logorante,  lenta, che ha dei momenti di tensione, poi si rilassa, ma rimane in conflitto. E’ la strategia della guerra perenne per sopravvivere all’energia cinetica del tempo che passa, e si muove in due direzioni, una interna e l’altra, che stiamo conoscendo bene in questi giorni, esterna. 

 


Dalla colonia penale di Pokrov, Alexei Navalny affronta un nuovo processo e rischia dieci anni di carcere


 

Ieri in un’aula di tribunale improvvisata nella colonia penale numero 2 di Pokrov si è aperto un nuovo processo ad Alexei Navalny, il più celebre degli attuali oppositori del Cremlino. E’ accusato di frode e rischia altri dieci anni di carcere. Sta già scontando una pena di due anni e la colonia penale di Pokrov è conosciuta per il suo regime detentivo molto duro. Per chi volesse sapere quali sono le colpe di Navalny, la risposta è paradossale: Alexei doveva presentarsi a regolari controlli con la polizia russa per un vecchio caso, ma a uno degli ultimi incontri non si è presentato. Perché? Era prima in coma, poi ricoverato in una clinica a Berlino per un tentativo di avvelenamento da Novichok. Il Novichok è un nervino potente, di cui in pochi conoscono la composizione, chi lo ha fabbricato con molta probabilità veniva dai servizi russi. Quindi, Alexei Navalny non si è presentato a un incontro con la polizia perché, dicono alcune inchieste, i servizi russi, che lo pedinavano da tempo, hanno cercato di eliminarlo. Dopo un periodo in Germania, Navalny ha deciso di tornare in Russia. All’aeroporto di Mosca è stato arrestato perché non si era presentato ai controlli. Ha fatto una brevissima conferenza stampa con alle spalle un poster del Cremlino, ha baciato sua moglie Yulia per l’ultima volta da cittadino libero, e la polizia se l’è portato via. Da quel momento incontra Yulia o nelle aule dei tribunali o in carcere: anche ieri si sono visti e si sono stretti in un abbraccio straziante con la polizia attorno che faceva finta di nulla.

 

 

La guerra del Cremlino a Navalny è capillare, dopo l’oppositore, ha cominciato a colpire tutti i suoi sostenitori. Il suo movimento politico e le organizzazioni anticorruzione che contribuivano a portare avanti le inchieste sono state dichiarate “organizzazioni estremiste”. Nella lista delle organizzazioni estremiste c’è anche lo Stato islamico. Oggi si rischia una sentenza per una foto con un logo associato a Navalny e l’accusa è di aver mostrato simboli vietati. La testata online Meduza, sito russo di notizie accurate, ha sollevato un’obiezione: la Russia non ha un elenco di simboli estremisti, ma si basa, caso per caso, sulla valutazione di esperti. Quello scelto per stanare l’estremismo dei simboli navalniani è un ragazzo di ventidue anni, si chiama Danila Mikheev. E’ un presunto esperto forense, la sua professione è denunciare gli attivisti dell’opposizione. Ma perché tanto accanimento nei confronti di un oppositore che mai avrebbe potuto mettere in difficoltà Putin nelle urne? Un esperto di intelligence russa ci ha risposto: “Perché Putin fa una differenza tra oppositore e traditore e per lui Navalny, con le sue connessioni all’estero, era diventato un traditore”. Lentamente però, la repressione ha iniziato a colpire anche altre frange dell’opposizione, fino a quel momento tollerate. Ha iniziato a colpire i giornali, le ong, inlcusa Memorial, la più antica ong della Russia, nata per ricostruire la memoria dolorosa dei gulag. Putin da liquidatore della nostalgia sovietica che doveva apparire negli anni Novanta si è trasformato nell’alfiere di questa nostalgia. 

 


“Putin fa una differenza tra oppositore e traditore e per lui Navalny è un traditore”, ci dice una fonte d’intelligence


 

Di nostalgia è fatto anche lo strepitante conflitto esterno, perché il mondo del putinismo si è dovuto inventare un’identità a un certo punto e l’ha fatta affondare nel passato. L’articolo scritto da Putin sulle origini comuni di Russia e Ucraina è stato il tentativo di annunciare un altro modo per  mandare avanti il suo potere: deve far succedere delle cose. Le spese, adesso, le sta facendo l’Ucraina che ha mantenuto la calma più di chiunque altro nonostante avesse una Russia scalpitante dall’altra parte del confine. Che lo scalpitio fosse reale o un bluff non ha importanza. Le truppe sono ancora lì e il messaggio è sempre lo stesso: noi siamo pronti. Putin ha capito che viene considerato se sfascia, se muove i carri armati, se minaccia. Dietro a questa nozione c’è però il più grande fallimento del putinismo: non è riuscito a far diventare la Russia una vera potenza economica, quindi ricorre alle armi. C’è la convinzione tra i funzionari russi che gli Stati Uniti non prendano la Russia sul serio e Mosca vuole mostrare quale rischio si corre a ignorare i suoi interessi. Ha portato questo scontro a un millimetro dallo scoppio e ora mostrando il  ritiro – alcuni esperti che studiano le immagini dei satelliti lo stanno già smentendo – fa vedere che è tutta colpa dell’isteria occidentale, che la Russia stava solo conducendo esercitazioni militari. 

 

C’è un fatto importante che indica che questa guerra esterna non è finita, ed è la decisione della Duma di votare a favore di una risoluzione per sollecitare Putin a riconoscere Donetsk e Lugansk, le due zone nel Donbass che si sono proclamate repubbliche popolari. Il presidente ha detto che in quelle zone si sta “compiendo un genocidio” contro i cittadini di origini russe, la parola genocidio era stata già usata dai media vicino al Cremlino. Nel Donbass, dove si trovano le sedicenti repubbliche, si sta combattendo una guerra da otto anni. Una parte è controllata dall’esercito ucraino, l’altra è finita nelle mani dei filorussi. Riconoscerle vuol dire affermare che per la Russia sono stati sovrani e indipendenti e che Mosca può ufficialmente prendersi cura della loro sicurezza, nel caso in cui vengano attaccate. Da anni sta offrendo in quelle zone dei passaporti russi, sta creando dei cittadini, ma per ora  preferisce che rimangano dentro l’Ucraina: così possono interferire nella politica di Kiev. Dentro ai confini di Mosca sarebbero soltanto un peso: pensioni da pagare, strade, edifici, fabbriche da ricostruire. Lo scenario più plausibile ora, se la diplomazia fallisce, è un’invasione del Donbass per tutelare la popolazione russa che secondo la propaganda è oggetto di violenze di ogni tipo. 

 


Il più grande fallimento di Putin è non aver reso la Russia una potenza economica. Per contare fa la guerra 


 

Mosca sta creando il casus belli da tempo, l’importante è tenere in sospeso quell’idea di guerra, tenere l’opzione sul tavolo, lavorare con calma ed efferatezza. Alla diplomazia come alla guerra. Esternamente e internamente. Punta un carro armato alla volta. Disintegra Navalny un processo alla volta. Putin crede di avere più tempo dell’occidente, è sicuro di ragionare per intere epoche. E’ convinto che noi, democrazie ballerine, abbiamo meno tempo: ragioniamo per cicli elettorali. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)