In Francia
Troppe parole inglesi creano disparità, dice l'Académie. E Le Pen ne fa un'arma sovranista
L’infiltrazione degli anglicismi è ormai arrivata a un livello insostenibile, dice l'Académie française, sottilineando pericoli sociali oltre che linguistici. E subito, l'esponente della destra estrema, in difficoltà in vista delle elezioni, ha cercato di approfittarne proponendo un “grande piano d’urgenza” per salvare il francese
La lingua francese è in pericolo, o almeno è quello che la madre di Emmanuel Carrère ha annunciato qualche giorno fa. Hélène Carrère d’Encausse, seggio numero 14 che fu di Victor Hugo, dal 1999 è segretario perpetuo dell’Académie française. Il compito principale dell’istituzione fondata da Richelieu è appunto vegliare sulla lingua della nazione. L’infiltrazione degli anglicismi è ormai arrivata a un livello insostenibile, dice d’Encausse, è visibile una chiara ascesa del franglais nelle comunicazioni istituzionali, pubbliche e private. I toni sono apocalittici, come quelli di uno scienziato inascoltato che allerta il mondo. Tipo “Don’t look up”, dove però l’asteroide sono i cheap e i cool, gli sharing e i delivery, gli smart working e i lockdown. Già tre anni fa Frédéric Vitoux, seggio 15, aveva detto: “La Francia deve resistere all’invasione del franglais”, parlando di “accelerazione inquietante”.
Intervistata dal Figaro, d’Encausse ha commentato preoccupata: “Siamo a un punto critico”. Il motivo d’allarme non è solamente protezionistico, c’è anche un elemento sociale. Il vocabolario anglo-americano coinvolgerebbe soltanto una frangia ridotta della popolazione, “privilegiata e scolarizzata”, favorendo “un’insicurezza linguistica”. “La gente non sa più come parlare”, aggiunge d’Encausse, e chiede: perché privilegiare l’inglese nei documenti d’identità dopo che il Regno Unito è uscito dalla Unione europea? Qualcuno potrebbe vederci un patriottico desiderio di ritorno a una lingua franca – ça va sans dire – francese, come nella diplomazia pre Grande guerra. A gennaio del 2020, l’Académie aveva creato una commissione per studiare la comunicazione istituzionale dei precedenti quindici anni. Nel report si fanno gli esempi di orgogli nazionali come Air France, che usa il termine “skyteam”, o la Sncf– “ready to Ouigo?” – o la Poste che pubblicizza l’uso di “pick-up stations”, o addirittura i siti ufficiali di alcuni ministeri. Si parla di “saturazione”. Secondo un sondaggio il 47 per cento dei cittadini trova ostile o irritante i messaggi pubblicitari in inglese, e due terzi dei francesi vorrebbero proteggere giuridicamente la lingua nazionale. Esiste in effetti già una legge del 1994, la Toubon, che rende obbligatorio l’uso del francese nelle pubblicazioni statali, governative e scolastiche, ma che non tocca quella commerciale privata. Con l’arrivo dei computer si cercò in quegli anni, e in parte ci si riuscì, a evitare l’importazione dei termini tecnologici, traducendoli, (mouse diventò souris, cioè topo).
Marine Le Pen, in difficoltà in vista delle elezioni, schiacciata tra i repubblicani e Zemmour, ha subito cercato di approfittare dell’appello di Quai de Conti. Ha proposto un “grande piano d’urgenza” per salvare il francese, volendo vietare per legge l’uso delle lingue straniere nella pubblicità e nella comunicazione “tranne rare eccezioni”, attaccando sia “l’egemonia anglosassone”, sia “le culture importate”, che si installano con i loro costumi e le loro lingue. Un colpo all’atlantismo e un colpo all’immigrazione. Tra le proposte c’è anche quello di far diventare il francese la lingua ufficiale nelle sedi politiche dell’Unione europea. Chez nous giusto Draghi a un certo punto in una conferenza stampa, subito virale, aveva detto: “Contributo baby-sitting... chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi?”. Servirebbe un report, ma basta prendere i treni di Italo dove il capotreno si chiama “train manager”: in “Palombella rossa”, Nanni Moretti schiaffeggiava la giornalista per molto meno.