Come la guerra in Ucraina influenza la moda
Prima la pandemia, poi l’attacco di Putin a Kyiv e quindi le sanzioni. Che cosa può fare il settore del lusso per trasformarsi
La collezione di minigonne a vita bassa e di maglioni tagliati a vivo sotto il seno di Miu Miu era già andata esaurita in tutto il mondo, segno evidente del ritorno alla sensualità dopo due anni di tute, sneaker e di quel genere di maglioni che il lessico modaiolo, avvezzo alle iperboli gratificanti, definisce affettuosi e avvolgenti, e quello comune occultanti, cioè atti a mascherare cicce ed eccessi alimentari. Erano ricomparsi i tacchi alti, i lacci alla caviglia, le suole leggere di cuoio e quintali di piume colorate. Trentenni e sessantenni toniche, abbigliate con la suddetta minigonna, avevano appena mostrato tutte sui propri account social l’effetto dirompente di due lockdown e mezzo trascorsi facendo yoga e pilates in live streaming invece di abboffarsi stravaccate sul divano, mentre la fashion week newyorchese aveva dimostrato per l’ennesima volta la propria totale inconsistenza stilistica e produttiva e quella di Londra sottolineato suo malgrado la propria eterna sudditanza al verbo del fetish più triviale e scontato.
Insomma, tutto si metteva per il meglio per le sfilate milanesi e in generale per la moda italiana, in lento ma costante recupero dopo due anni di pandemia.
Invece al momento in cui questo articolo va in stampa da due giorni e mezzo la Russia bombarda l’Ucraina, e la situazione è la seguente: i buyer russi invitati dalla Camera nazionale della Moda, grazie a un accordo sanitario speciale, per lo più dipendenti dei due colossi, Bosco dei Ciliegi di Mickhail Kusnirovich e Mercury, che significa i grandi magazzini Gum prospicienti il Cremlino, e il department store TsUM di poco distante, sono sì arrivati a Milano ma nessuno li ha ancora incontrati, nonostante abbiano già sfilato grossi calibri come Fendi, Prada, Gucci, Diesel, Max Mara che in Russia e in Ucraina ha negozi e molti interessi. E nonostante domani Giorgio Armani presenti la propria collezione, dopo aver portato in passerella con Emporio perfino certi fantastici attrezzi da neve in materiale tecnico trasparente, adattissimi a nord di Mosca per sciare ad effetto sopraelevato.
Forse, usiamo il paradosso ma qualcosa ci dice che non siamo troppo lontani dalla verità, i compratori con pass speciale sbarcati una settimana fa a Linate temono che anche a loro venga chiesta la stessa presa di posizione contro il presidente Vladimir Putin che il sindaco di Milano Beppe Sala ha preteso (sic) per lettera da Valery Gergiev, direttore di una nuova messinscena della “Dama di Picche” di Cajkovskij al Teatro alla Scala (poi il direttore ha lasciato l’Italia alla volta di New York, appena superati i controlli ha detto che “Putin is cleverer than most”, e sono saltati anche i tre concerti che avrebbe dovuto condurre alla Carnegie Hall; intanto le quattro repliche dell’opera previste fino a metà marzo ovviamente salteranno e con loro anche un rapporto con l’istituzione milanese che dura da oltre vent’anni). Ma questi sono incidenti di forma, relativamente di poco conto a dispetto delle perdite a sette zeri che il sovrintendente Dominique Meyer si troverà a dover ripianare e di una forse troppo frettolosa accettazione delle richieste del sindaco di Milano.
A Mosca, invece, giovedì mattina si è assistito al fuggi fuggi dall’ultima giornata della fiera Cpm, Collection Première Moscow, la principale manifestazione espositiva della moda nell’area, organizzata due volte all’anno nella sede dell’Expocentre Fairgrounds di Mosca, dove erano presenti undici aziende italiane del grande enclave produttivo e logistico bolognese di Centergross, che in Russia realizza il 35 per cento dei suoi 5 miliardi circa di giro d’affari. Il presidente Piero Scandellari ci ha gentilmente girato le foto che mostrano il padiglione italiano perfettamente vuoto, a eccezione di un’addetta delle pulizie al lavoro come in un’installazione di Duane Hanson. “L’unico vantaggio, se tale si può definire, è che gli imprenditori erano rimasti in Italia a causa delle restrizioni sanitarie e che a Mosca stavano accogliendo i clienti solo corrispondenti locali”, dice Scandellari, incontrato durante un incontro organizzato da Lineapelle e dal Foglio della Moda, in cui si sarebbe dovuto discutere di tempistiche produttive post-pandemiche e invece ci si è ritrovati a ipotizzare le ripercussioni delle “sanzioni severissime” contro la Russia evocate dal premier Draghi.
Dopo qualche anno di relativo stallo, l’export di moda italiana in Russia aveva infatti ripreso a crescere: a inizio settimana, l’ambasciatore italiano a Mosca, Giorgio Starace, intervenuto all’inaugurazione di Cpm, aveva annunciato che nei primi undici mesi del 2021 le esportazioni del sistema moda in Russia erano aumentate del 24 per cento, raggiungendo un valore pari a 1,3 miliardi. Da cinquantasei ore, nessuno vuole rilasciare dichiarazioni ufficiali per tema di ulteriori smentite da una realtà che assume sempre più da vicino le forme della distopia, o forse di una storia che in occidente pensavamo di esserci lasciati alle spalle con la Seconda guerra mondiale, ma nonostante i tentativi di minimizzare e gli inviti a “concentrarsi sui vestiti”, sorridente monito di tutte le responsabili comunicazione dei brand per troncare sul nascere i discorsi a bordo passerella, fra una sfilata e l’altra si inizia a fare i conti sulle nuove perdite e a prendere le misure del nuovo, incombente disastro per un settore che sembrava davvero avviato sulla strada del recupero dopo due anni difficili, e che aveva ripreso le attività con molta energia, a partire da una raffica di centosei fra eventi e presentazioni in sei giorni. Alla presentazione di Balestra, la nuova venture delle figlie e della nipote del grande maestro Renato, brillantissimo novantasettenne che continua a dare la propria approvazione a ciascuno dei capi in vendita, non di rado riprodotti dal suo archivio e perfettamente in linea con le nuove tendenze del pancino scoperto e dei cappotti di grande volume a contrasto, il presidente della Fondazione Italia-Cina, Mario Boselli, osservava come le nuove sanzioni che l’occidente adotterà per mandare l’atteso “segnale forte” contro l’azione russa, in mancanza di interventi militari, torneranno come un boomerang sull’occidente stesso.
Per restare al nostro tema specifico, l’abbigliamento, da pochi anni l’Italia andava recuperando terreno sul fronte delle forniture tessili grazie a una lenta strategia di rilocalizzazione in cui le esigenze di storytelling delle imprese del lusso, capitanate da Zegna, Prada e dal gruppo Lvmh, sposavano una politica di acquisizione di piccole imprese di eccellenza: sanzionare la Russia, rendendole impossibile approvvigionarsi presso le nostre aziende, significa avvantaggiare nuovamente la Cina, che va migliorando le proprie performance tecniche nel tessile di giorno in giorno e, come aggiunge Boselli, rischiare di perdere quel mercato per sempre. Gli industriali pratesi del settore hanno manifestato all’Ansa le proprie preoccupazioni; quelli della Ferragamo di Firenze, che l’altro giorno hanno accolto festosi il premier Mario Draghi in visita all’archivio e alla manifattura, non hanno fatto invece in tempo perché la guerra, che davvero nessuno si aspettava tranne forse gli esperti di politiche Nato, è scoppiata nottetempo ventiquattr’ore dopo. Alla presentazione dell’altra mattina, i vertici di Santoni, calzature di lusso cucite a mano a Macerata e molto amate dagli oligarchi russi, lasciavano capire che saranno con ogni probabilità costretti a interrompere la produzione degli ordini della collezione estiva per i negozi e le catene di negozi multimarca di Mosca e San Pietroburgo.
Con la Russia, pochi lo sanno perché il sistema “pagare denaro vedere cammello” non è pratica elegante, le imprese italiane della moda lavorano solo cash e dietro pagamenti immediati: se le sanzioni dovessero toccare il sistema swift, sarebbe troppo rischioso consegnare la merce adesso e infatti molti stanno prendendo la stessa decisione dell’imprenditore marchigiano. In estrema sintesi, si sta già nuovamente perdendo fatturato. Fuori dalla sfilata di Emporio Armani, dove gli angeli custodi del padre nobile della moda nazionale sopivano ogni tentativo della stampa di ottenere la sua opinione sulla guerra, ché la sua è l’ultima generazione ad aver conosciuto e vissuto sulla propria pelle, il presidente della Camera della Moda Carlo Capasa si doleva non solo e come ovvio sull’orrore dell’atto in sé , ma anche sul suo atroce timing, ovviamente ben studiato, nei confronti del mondo che andava lentamente riemergendo dopo lo choc pandemico.
Il problema è che la moda, attività artistico-commerciale di rilevanza certo fondamentale ma non indispensabile, nonostante la patina inclusiva del tutto distonica alla sua natura che adesso tenta di darsi, ha letteralmente bisogno di tutti. La cosa si dimostrò in tutta la sua chiarezza proprio durante la Seconda guerra mondiale, quando gli atelier francesi e italiani tennero i battenti aperti fino all’ultimo minuto possibile, assoggettandosi a ogni genere di restrizioni e all’imposizione di “bollini di qualità”, cioè di fedeltà al regime, vestendo le mogli dei gerarchi e modulando i propri slogan calzaturieri sul modello reso celebre dalla ditta stivalaia Pasquini di Lucca “non tengo attaccature / Neppure cuciture / Come l’Italia vuole / Tutto d’un pezzo son”. Dalle restrizioni autarchiche e dalle penurie della guerra e dei primi anni della ricostruzione, Salvatore Ferragamo trasse quelle meravigliose invenzioni – e le suole di sughero, e le tomaie di cellophan – che sono ancora copiate e rivisitate dalla manifattura del settore. Ed è anche vero che la moda non è mai stata superciliosa nemmeno con i peggiori dittatori delle ex repubbliche sovietiche e dell’Africa, anzi ci sono brand (pochi per la verità, di certo non Dior, Armani o Valentino, ma ci sono), che accolgono nelle prime file delle proprie sfilate di alta moda le loro mogli e le loro figlie, servendole fra moine.
La presa di posizione di Meyer e di Sala non è, appunto, per tutti, e infatti fino a oggi non si sono ascoltate condanne ufficiali da parte delle associazioni della moda per l’attacco all’Ucraina, alla faccia della diversity&inclusion&peace&love, che sono cose bellissime da praticare quando il dibattito può svolgersi sul tema dell’identità di genere fra un pugno di intellettuali formati a Yale, a Cambridge e a Bologna, e non sulle bombe sganciate su insediamenti civili da parte dell’esercito di un paese dove tutti hanno grossi interessi economici e centinaia di boutique.
In queste settimane, la moda mondiale, come ogni altro settore industriale, sta anche subendo un altro contraccolpo, che è l’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime e dell’inflazione, da cui è facile prevedere un’ulteriore erosione dei ricavi per l’anno in corso. Rivalersi dell’instabilità dei rifornimenti sul cliente finale con un ulteriore aumento dei prezzi è cosa immorale per il lusso che già lavora con multipli di uno a sedici, come osservava l’altro giorno Brunello Cucinelli. La sua puntualissima precisazione nasconde però un altro timore, comune agli imprenditori acuti come lui e forse un po’ meno ai fat cat della moda mondiale che ogni anno ritoccano verso l’alto il listino dei capi e dei prezzi più ricercati, e cioè che dopo la pandemia, l’atteggiamento nei confronti della moda è cambiato: da una parte, l’eccessiva offerta dei brand ha reso il lusso sempre più masstige, cioè accesso costoso di massa ma pur sempre di massa, cioè troppo riconoscibile per un cliente sofisticato. Dall’altro, sempre più persone condividono l’opinione di Cucinelli. Oltre una certa soglia di prezzo, l’esclusività diventa scelta immorale, del tutto incompatibile con il momento storico. E sempre più felicemente sostituibile con viaggi (dovunque e appena si potrà, ma anche nella spa a cento chilometri), serate al ristorante con gli amici, vini di lusso. Non ci sono dubbi che nei prossimi mesi che la moda sposterà la propria attenzione in modo sempre più evidente su queste attività: quella che chiama “esperienza”.