Putin è uno spettro del passato in due universi che collidono
Il discorso alle Nazioni Unite di Martin Kimani, ambasciatore del Kenya, mostra che al giorno d’oggi, l’eterna illusione dei nazionalisti che a ogni stato corrisponda una nazione omogenea, non può essere ancora il principio che governa il destino delle persone
Claudio Cerasa ha ragione: Putin non è un pazzo, è un nostalgico dell’impero sovietico (di lingua russa) che sogna di ricreare. Lo ha spiegato benissimo l’ambasciatore del Kenya alle Nazioni Unite, Martin Kimani, che lunedì scorso ha pronunciato un discorso contro l’aggressione russa che è diventato virale.
Il Kenya e quasi tutti i paesi africani – ha ricordato Kimani denunciando un comportamento fin troppo familiare ai paesi usciti dal colonialismo – sono nati con la fine degli imperi: “Non siamo stati noi a tracciare i nostri confini. Sono stati tracciati nelle lontane metropoli coloniali di Londra, Parigi e Lisbona senza alcun riguardo per le antiche nazioni che hanno separato. Oggi, oltre il confine di ogni singolo paese africano, vivono dei nostri connazionali, con i quali condividiamo profondi legami storici, culturali e linguistici. Se, al momento dell’indipendenza, avessimo scelto di costruire gli stati sulla base dell’omogeneità etnica, razziale o religiosa, saremmo ancora impegnati in guerre sanguinose. Invece, abbiamo convenuto che ci saremmo accontentati dei confini che abbiamo ereditato, ma avremmo comunque perseguito l’integrazione politica, economica e giuridica continentale. Piuttosto che formare nazioni che guardassero sempre indietro nella storia con una pericolosa nostalgia, abbiamo scelto di guardare avanti ad una grandezza che nessuna delle nostre numerose nazioni e popoli aveva mai conosciuto”.
Eppure, in Italia, sono in molti a sottovalutare il significato e le conseguenze dell’intervento militare russo in Ucraina (fin da quando, nel 2014, a un cambio di regime causato da un movimento di protesta dal basso, la Russia ha risposto annettendo la Crimea e fomentando un movimento separatista nelle regioni orientali del paese: l’Ucraina, detto in soldoni, non può diventare una democrazia in stile occidentale petrché il contagio potrebbe arrivare fino a Mosca). Ovviamente, i paesi che, come il nostro, intrattengono con la Russia importanti relazioni economiche sono inclini a mediare in ambito europeo per non acutizzare la tensione con Mosca. Ma la guerra evidenzia che la Ue e la Russia rappresentano modelli di integrazione politica ed economica (di più: due universi) che collidono. La Russia persegue una politica neo-hobbesiana nutrita da una narrazione conservatrice (cerca di accreditarsi come custode dei valori della tradizione in contrasto con l’occidente che si erge a baluardo dei diritti individuali). Ma ciò significa il ritorno alla politica di potenza, alla condizione precedente alla Seconda guerra mondiale in cui, come ha scritto il WSJ, “il più forte si impone sul più debole e i despoti avanzano”. Come si fa a non vedere che se il principio che ha mosso Putin (la supposta necessità di proteggere i diritti e l’incolumità della popolazione russofona) dovesse affermarsi come “normale”, la giostra è destinata a ripartire? Kaliningrad si chiamava Königsberg, Pola è italiana. Dal nostro confine orientale a Mosca cambia lingua ogni venti chilometri. Ricominciamo daccapo? Il ritorno della vecchia storia nel cuore del continente preannuncia (come abbiamo già visto nella ex Jugoslavia) il ritorno della guerra come strumento della politica. Putin non è un attore tra i tanti, è uno spettro del passato.
Non sarebbe male ricordare che l’espulsione dei giuliani e dalmati che abbiamo celebrato due settimane fa nel Giorno del ricordo (delle foibe, dell’esodo e “della più complessa vicenda del confine orientale”), si inserisce appunto, come spiega il prof. Paolo Segatti, “in un contesto territoriale dove il problema di un esteso pluralismo linguistico e culturale secondo la cultura del tempo andava preferibilmente risolto sulla base del principio: un territorio, uno stato e una lingua. In contesti di questo tipo, come ebbe ad osservare Ernest Gellner nel 1992, se gli stati sorti dopo la Prima guerra mondiale volevano, come vollero, promuovere l’omogeneità culturale dei loro popoli, allora ‘molte, molte persone dovevano essere assimilate, o espulse o uccise’. Ed è quello che è accaduto, prima alle minoranze alloglotte in Italia poi agli italiani del confine orientale, e a tutti gli uomini e le donne che si sono trovati in posizione di minoranza in Europa centrale e orientale tra le due guerre e dopo la Seconda guerra mondiale”. Proprio quelle vicende dovrebbero aiutarci a comprendere che, al giorno d’oggi, l’eterna illusione dei nazionalisti che a ogni stato corrisponda una nazione omogenea, non può essere ancora il principio che governa il destino delle persone.
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