Il rublo fuori da Mosca. Il cerchio magico di Putin è in crisi
I fedelissimi del presidente hanno stipato le loro ricchezze all’estero in maniera significativa. Congelare i loro beni vuol dire metterli davanti a un bivio: la ricchezza o la fedeltà all’autocrate. Uno studio
Secondo quanto suggeriva decenni fa George Kennan, il padre della politica del contenimento, l’azione migliore verso l’Unione Sovietica era presidiare i confini della Nato, mentre si adottavano delle sanzioni economiche. Il tutto per sgretolare il consenso intorno al Cremlino, sia quello popolare sia quello dei pretoriani. Vediamo che cosa è stato messo in opera oggi. Abbiamo le sanzioni economiche volte a sgretolare il consenso popolare. E abbiamo quelle politiche volte a colpire i pretoriani. Quelle economiche sono: tenere fuori la Russia dal sistema di pagamenti internazionale; il congelamento della capacità di intervento della sua banca centrale, e il blocco dell’esportazione dei beni tecnologici. La sanzione politica è creare le condizioni per il rovesciamento dell’autocrate. Detto in altro modo, si incentiva una parte della classe dirigente a sostituire l’autocrate con chi è disposto a più miti consigli. Una riesumazione dell’Ordine del giorno Grandi del 25 luglio 1943.
Le autocrazie sono difficili da rovesciare. Chi si ribella deve affrontare i costi, dalla detenzione alla perdita della vita, necessari per rovesciarle. Chi si ribella non può sapere se vi sono altri disposti a fare lo stesso. La numerosità è necessaria per avere un qualche impatto eversivo. Non potendo sapere quale sarà il comportamento degli altri, il singolo ribelle, se è razionale e non è un eroe, non farà nulla, oppure, se nessuno si comporta come lui, ma agisce lo stesso, finirà nei guai. Se sono questi meccanismi che trattengono l’azione eversiva, perché cadono i regimi tirannici? L’autocrate detiene il potere perché controlla la macchina dello stato. Se i membri della macchina pensano che l’autocrate sia invincibile e che possa distribuire dei benefici, eseguiranno i suoi ordini. Se, invece, pensano che non sia invincibile, e nemmeno ricco per distribuire benefici, non lo seguiranno, e il regime si sfalderà.
Nella lotta politica in Russia gli oligarchi della prima ora sono ormai passati in secondo piano. Svolgono le proprie attività, ma non sono un problema maggiore per il potere politico. Al loro posto si ha la burocrazia predatoria. Una burocrazia legata all’amministrazione centrale e periferica, e alle imprese non privatizzate. Al posto degli oligarchi vi sono oggi degli interessi diffusi molto vicini al potere politico, intanto che si è avuto un grande spostamento di ricchezza all’estero. Da qui la vulnerabilità dei pretoriani.
Se l’autocrazia, è, al contrario della democrazia, il sistema che non consente il ricambio della classe dirigente senza spargimento di sangue, allora un autocrate ed il suo seguito hanno tutto l’interesse a stipare i denari all’estero per sopravvivere, fosse mai che possano perdere il potere. Infatti, molti dittatori con il loro seguito hanno portato le proprie fortune nei paesi democratici e nei paradisi fiscali, che sono emanazioni dei paesi democratici. Da notare che gli autocrati e il loro seguito, conoscendo bene il funzionamento delle autocrazie, non portano la propria ricchezza in altri paesi autocratici, perché ci sono molte meno occasioni di investimento, ma soprattutto perché ci sono minori garanzie legali.
Il cerchio magico di Putin ha stipato all’estero le proprie ricchezze in misura significativa. Ed ecco che, se le si congela, lo si può mettere con le spalle al muro, e spingerlo a tentare, agendo nel proprio interesse, un cambio di regime. Va così prima analizzata la composizione del reddito e della ricchezza russa, e poi va indagata la parte detenuta all’estero. La fonte numerica delle argomentazioni è tratta da: “From Soviets to oligarchs: inequality and property in Russia 1905-2016” di F. Novokmet, T. Piketty, G. Zucman, 2018. Con gli aggiornamenti tratti da: “Capitale et Idéologie”, T. Piketty, 2019.
Se si osserva la distribuzione del reddito ai tempi dello zar e a quelli di Putin, si ha che il 10 per cento più abbiente comanda il 50 per cento circa del reddito nazionale. In epoca sovietica il 10 per cento più abbiente comandava il 25 per cento circa del reddito nazionale. Il 50 per cento più povero comandava, sempre in epoca sovietica, il 25 per cento del reddito nazionale, che è il doppio di quanto si osserva nell’epoca dello zar e di Putin. Abbiamo quindi una distribuzione del reddito simile fra l’epoca dello zar e quella di Putin, con un intervallo molto meno diseguale in epoca sovietica, dove però si aveva una diseguaglianza marcata nell’accesso non monetario ai beni, che non può essere misurata. Le differenze fra gli abbienti e i poveri è ovviamente il ceto medio, che ha avuto una quota all’incirca costante del reddito nazionale, intorno al 45 per cento in tempi sovietici e del 35 per cento ai tempi dello zar e ai tempi di Putin. In Europa la distribuzione del reddito è oggi molto meno diseguale di un secolo fa, e quindi molto meno diseguale di quella russa, mentre negli Stati Uniti e in Cina la distribuzione del reddito è vicina a quella della Russia.
Passando ai numeri assoluti, e tenendo conto del potere d’acquisto, perché i beni hanno dei prezzi inferiori nei paesi meno sviluppati, si ha che il reddito pro capite russo, che calcolato in termini di parità di potere di acquisto più che raddoppia, è stimato con la base nel 2016, pari a 24 mila euro lordi di imposte, ossia pari a circa tre quarti del reddito pro capite lordo di imposte dell’Europa ricca. Questa è la media. Osserviamo la varianza. Il 50 per cento dei russi più poveri, 57 milioni di persone, ha un reddito intorno agli 8 mila euro. Il 40 per cento meno povero, 46 milioni di persone, intorno ai 20 mila. Il 10 per cento più abbiente, 11 milioni di persone, intorno ai 100 mila. L’uno per cento ancora più abbiente, 1 milione di persone, intorno ai 500 mila. Queste ultime classi di reddito spendono parecchio all’estero, e quindi possono far credere che i russi siano molto ricchi.
Detto del reddito, passiamo alla ricchezza, che in tutti i paesi è composta da terreni agricoli, abitazioni, attività private non quotate, attività private quotate, e beni pubblici. La ricchezza può essere suddivisa fra quella detenuta all’interno e quella detenuta all’estero. In epoca sovietica la ricchezza pubblica non poteva che essere diverse volte maggiore di quella privata. Da allora, con la nascita dell’economia decentrata, la ricchezza privata è esplosa, diventando tre volte più grande di quella pubblica. La parte maggiore dell’ascesa della ricchezza privata si è avuta con la crescita del prezzo delle abitazioni, divenute, dopo il socialismo, di proprietà. Segue nell’ascesa delle classi di ricchezza quella in forma di imprese private non quotate. Insomma, nulla di diverso da quanto avvenuto nei paesi sviluppati, dove la quota maggiore della ricchezza privata è quella immobiliare, seguita dalle attività economiche non quotate. Diversa è, rispetto ai paesi sviluppati, la distribuzione della ricchezza finanziaria, poco diffusa fra la popolazione russa. La vera anomalia rispetto ai paesi sviluppati è la quota di ricchezza detenuta all’estero.
Dalla caduta dell’Urss la Russia ha registrato delle esportazioni nette annue, ossia le esportazioni meno le importazioni, intorno al 10 per cento del pil. Un surplus enorme, in massima parte dovuto alle materie prime. Partendo, ai tempi della caduta dell’Urss, da una condizione di indebitamento netto, ossia le attività russe detenute all’estero meno attività estere detenute in Russia, all’incirca pari, si ha che l’accumulo del 10 per cento annuo di un surplus della bilancia commerciale per venti e più anni dovrebbe mostrare una quantità enorme di attività estere detenute dalla Russia. Facendo dei conti semplici, e assumendo che le attività detenute all’estero dai russi non si siano rivalutate e neppure svalutate, si dovrebbe arrivare oltre il 200 per cento del loro pil. Invece, la quota ufficiale di attività estere in mano russa è di molto inferiore, all’incirca un 30 per cento. La spiegazione più credibile di questa differenza è quella di una quota di enorme di ricchezza detenuta all’estero in forma non ufficiale.
Secondo i conti della Banca dei Regolamenti Internazionali e della Banca Nazionale Svizzera, le attività finanziarie detenute nei paradisi fiscali sono pari al 4 per cento della ricchezza finanziaria statunitense, al 10 per cento di quella europea, ma al 50 per cento della ricchezza finanziaria russa. I paesi africani hanno il 40 per cento stipato nei paradisi fiscali, e le monarchie del Golfo il 60 per cento. Dai numeri si può dedurre che minore è la certezza del diritto in patria maggiore è l’investimento estero nei paradisi fiscali. Così come si può dedurre che minore è la sicurezza che si ha per il proprio patrimonio e per la propria vita in caso di perdita del potere, maggiore è l’investimento all’estero nei paradisi fiscali.
In conclusione, la Russia ha una distribuzione del reddito più ineguale di quella europea, ma non troppo diversa da quella statunitense e cinese. La Russia ha una composizione della ricchezza domestica poco diversa da quella della maggior parte dei paesi sviluppati, perché la quota immobiliare è preminente, seguita dalle attività private non quotate. La grande dissomiglianza fra la Russia e i paesi sviluppati è la ricchezza finanziaria detenuta all’estero nei paradisi fiscali, ed è la grande somiglianza della Russia con i paesi in via di sviluppo. La ricchezza russa stipata nei paradisi fiscali non è certo diffusa in misura eguale fra la popolazione, ma è concentrata nelle mani di pochi. Da qui l’idea, venuta fra le due sponde del Nord Atlantico a seguito dell’invasione dell’Ucraina, di congelare i beni esteri di chi è vicino al potere in patria e ne trae dei vantaggi. L’idea è di mettere i pretoriani di fronte a un bivio: mantenere i propri beni oppure manifestare la fedeltà all’autocrate. Si può così pensare che in un numero sufficiente preferiscano la prima opzione. Ciò che potrebbe portare, complice una non vittoria militare, a un cambio di regime.