Così un solo uomo, Zelensky, ha deviato il corso della storia
Per Putin doveva essere un blitz, come fece l'Urss a Budapest e Praga. L'Occidente balbettava davanti al fatto compiuto. Il destino aveva affidato a Zelensky la parte di liquidatore fuggitivo dello stato ucraino, ma si è preso il ruolo di padre fondatore dell'Ucraina e anche dell'Europa
"Mai così tanti dovettero così tanto a così pochi”, disse Winston Churchill nel suo celebre discorso riferendosi all’eroismo dei militari della Royal Air Force che stavano combattendo nei cieli inglesi contro la Luftwaffe per bloccare l’invasione nazista. Nel caso dell’invasione russa dell’Ucraina, il cui esito è ancora in bilico tra la salvezza e la devastazione, i “pochi” a cui gli ucraini e gli europei devono tantissimo sono in realtà un solo individuo: il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
“La risposta dell’Europa è stata pronta, ferma, rapida, forte e unita soprattutto”, ha detto ieri il presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo intervento, peraltro di alto profilo, nella discussione parlamentare sulla crisi ucraina. In realtà non è andata proprio così. Questo è l’esito finale del fronte comune europeo, atlantico e occidentale contro la guerra d’aggressione di Vladimir Putin, ma non è stato così sin dall’inizio. La risposta dell’Europa allo scoppio del conflitto, quando i battaglioni russi erano pronti a invadere il territorio ucraino e Putin ha riconosciuto le sedicenti repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, non era affatto “pronta, ferma, rapida, forte e unita”. I paesi europei erano molto divisi sulla reazione e sulle sanzioni da adottare, in particolare quelli più dipendenti dal gas russo ed esposti alle ritorsioni di Putin come l’Italia e la Germania. “Crepe nella determinazione occidentale contro la Russia”, titolava il Wall Street Journal in un editoriale in cui criticava proprio le parole del premier italiano sulla necessità di evitare sanzioni sull’energia: “Questo tipo di resa preventiva è esattamente il motivo per cui Putin ritiene che il prezzo di un’invasione sarebbe inferiore a quanto dichiarato”.
Che l’Italia non fosse tra i paesi più risoluti nelle sanzioni contro la Russia è testimoniato dalle affermazioni del sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, con un solido passato filorusso nel M5s, che il 22 febbraio, dopo l’esplosione della crisi, diceva: “Il quadro sanzionatorio è una partita che ognuno gioca a suo vantaggio... noi ad esempio abbiamo chiesto di escludere il lusso dalle sanzioni, perché è la maggior parte di export italiano verso la Russia”. Dubbi simili, anche da parte della Germania, c’erano sulla sospensione dal sistema dei pagamenti internazionali Swift. In pochi giorni, gli stati europei sono andati molto oltre, bloccando e congelando le riserve estere della Banca centrale russa. E ora inviano armi all’esercito russo. Ma è accaduto ancora di più. Sulla spinta del fronte comune su sanzioni durissime, gli europei hanno scoperto l’orgoglio per l’Ue, l’importanza della Nato, l’idea di un destino comune. Com’è stata possibile un’accelerazione di questo tipo? Come siamo passati dal timore delle ritorsioni di Putin sul settore del lusso all’invio agli ucraini di missili anticarro e Stinger da usare contro il suo esercito? Dove ha trovato l’Europa tutto questo coraggio e unione d’intenti?
E’ evidente che il merito è di Zelensky, che ha deviato il corso della storia. Putin aveva immaginato questa guerra come un’invasione-lampo che avrebbe portato a un regime change: un golpe dei militari che avrebbe riportato Kiev nella sfera d’influenza di Mosca. Più o meno ciò che è accaduto a Budapest nel ’56 o a Praga nel ’68. Nella mente di Putin, il destino di Zelensky, un attore comico divenuto per caso presidente di uno stato di per sé incapace di resistere, sarebbe dovuto essere quello della fuga. Un po’ come accaduto recentemente in Afghanistan con il presidente Ashraf Ghani. Il blitz russo si sarebbe risolto in pochi giorni, durante i quali gli stati occidentali non sarebbero riusciti a coordinarsi per una risposta, costringendoli così ad accettare il fatto compiuto. Insomma, una replica dell’annessione della Crimea del 2014 su una scala più ampia.
Questo è quello che pensava Putin, ma anche il quadro di riferimento entro cui si muovevano gli stati occidentali. Gli Stati Uniti avevano offerto a Zelensky una via di fuga da Kiev, per metterlo in salvo e magari fargli costituire un governo in esilio. “La lotta è qui, ho bisogno di munizioni non di un passaggio” è stata la risposta, che ora è già leggenda. E’ con i suoi video e i suoi discorsi, grazie alle sue doti comunicative da attore, che Zelensky ha già vinto la guerra dei cuori e delle menti: ha guidato il suo popolo e motivato il suo esercito che sta resistendo ai carri armati russi, ha fatto guadagnare quei pochi giorni durante i quali ha di fatto trascinato le leadership europee e occidentali a unirsi in una durissima reazione a Putin.
Siamo abituati a pensare, in una società moderna e complessa come quella europea del XXI secolo, che la storia sia determinata da movimenti sociali, organizzazioni politiche, flussi finanziari e relazioni economiche, tecnocrazie, innovazioni tecnologiche, apparati istituzionali e organismi internazionali. E generalmente è così. Ma stavolta è diverso. Mai come in altre situazioni, la guerra è stata caratterizzata da un individuo, dalle sue azione e dal suo coraggio. La storia gli aveva affidato la parte del presidente che avrebbe assistito impotente alla dissoluzione dello stato ucraino. Zelensky invece si è preso il ruolo di padre fondatore dell’Ucraina moderna e, in una certa misura, anche dell’Europa unita. Ed è qualcosa che resterà anche se nei prossimi giorni Putin riuscirà a prendersi Kyiv. Mai così tanti devono così tanto a un solo individuo.