Pedro Sanchez, il premier spagnolo (Ansa)

Il caso

In Spagna Podemos vive male l'invio di armi a Kyiv voluto (con lentezza) dal suo governo

Guido De Franceschi

Dopo aver annunciato che Madrid non avrebbe mandato direttamente materiale bellico in Ucraina, il premier Sánchez ha cambiato rotta, scatenando i malumori di parecchi esponenti di spicco del movimento di sinistra radicale. Che ora rischia di spaccarsi sulla decisione dell'esecutivo

La scelta del premier socialista spagnolo Pedro Sánchez di annunciare a sorpresa che anche la Spagna invierà direttamente armi all’Ucraina, ha creato profondi malumori in Podemos, il movimento della sinistra radicale che è il suo alleato di governo. In effetti Sánchez, nei primi giorni di guerra – approfittando del fatto che la Spagna è alle prese con un traumatico cambio della guardia al vertice del Partito popolare ed è quindi un po’ distratta dallo scenario internazionale – aveva assicurato che Madrid non avrebbe mandato direttamente armi a Kiyv e che avrebbe agito esclusivamente attraverso il meccanismo di coordinamento dell’Unione europea, il Fondo europeo per la pace.

 

Poi, però, la Spagna si era trovata isolata in questa posizione iperprudente che la distingueva dagli altri maggiori paesi dell’Ue. E anche la Nato ha chiesto bruscamente conto a Sánchez di questa sua scelta. Ma probabilmente è stato soprattutto Josep Borrell – che è l’Alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, ma è anche uno dei più autorevoli esponenti proprio del partito di Sánchez – a dire al “suo” premier: “Beh?!?”. Il governo di Madrid si è quindi allineato e ha cambiato repentinamente la sua decisione: manderà 1.370 lanciagranate anti carrarmato (“di facile utilizzo anche per persone senza esperienza”, come ha specificato la ministra per la Difesa, Margarita Robles), mitragliatrici leggere e 700 mila proiettili per vari tipi di arma. Molti esponenti di spicco di Podemos, però, si sono detti contrari al cambio di rotta. Sánchez (al quale non occorrerà comunque un voto parlamentare) ha ricevuto critiche anche da tutti i piccoli partiti catalani, baschi e galiziani che sono espressione della sinistra indipendentista ma che spesso votano insieme al Psoe e Podemos, garantendo così al governo di ottenere su singoli provvedimenti quella maggioranza che non sarebbe invece assicurata dai soli voti dei socialisti e dei podemitas.

 

La rigidità delle formazioni della sinistra radicale non è però stata una sorpresa. Nelle linee di demarcazione della politica spagnola conta ancora molto il ricordo del referendum del 1986 sulla permanenza del paese nella Nato. Quella consultazione fu una delle curve più difficili del lungo governo del socialista Felipe González, dal momento che in quell’occasione anche molti elettori del Psoe votarono per uscire dall’alleanza atlantica. Il “no” alla permanenza della Spagna nell’Alleanza atlantica raccolse un notevole 43 per cento dei voti a livello nazionale, fu prevalente in Catalogna e stravinse nei Paesi baschi.

 

Proprio l’onda dell’entusiasmo per la campagna per il “no” alla Nato propiziò la formazione, attorno al Partito comunista spagnolo, della longeva coalizione Izquierda Unida (che molti anni dopo sarebbe confluita in Podemos) e permise all’indipendentismo radicale basco di ottenere i suoi migliori risultati elettorali di sempre. Anche oggi, quindi, al di sotto della patina di pacifismo e dei “non è con i missili che si combattono i missili” con cui la sinistra radicale spagnola si oppone all’invio di aiuti militari a Kiyv, continua a sberluccicare la vecchia vernice antiamericana di quel “no alla Nato” che, pur nella sconfitta del 1986, è stata una delle avventure più galvanizzanti vissute in Spagna da quella parte politica.

 

Non si può negare, però, che l’annuncio di Sánchez costituisca un grosso problema per Podemos. Infatti, mentre il portavoce parlamentare del partito, Pablo Echenique, e le due ministre “podemitas” Ione Belarra e Irene Montero hanno manifestato pubblicamente il loro disappunto, Sánchez ha ottenuto invece l’appoggio della vicepremier Yolanda Díaz, che di Podemos è la leader-non-leader (è “leader” in quanto è stata messa al comando del movimento dal suo fondatore Pablo Iglesias ed è “non leader” in quanto lei ha in tasca solo una tessera “affettiva” del Partito comunista ma a Podemos non è neppure iscritta). Anzi, la Díaz si è esposta in prima persona, affermando che “sull’Ucraina il governo parla con un’unica voce, che è quella del premier”.

 

Mentre dall’opposizione le ministre dissenzienti vengono invitate alle dimissioni, per Sánchez, che ha già incassato un “sì” alla Finanziaria che vale come un’assicurazione sulla vita del suo governo, i dissensi interni a Podemos possono diventare addirittura un’occasione per regolare qualche conto nell’ambito della tumultuosa coabitazione con l’alleato. E per ispirare, chissà, la nascita di un “cosa” più maneggevole guidata dalla Díaz. 
 

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